da Repubblica del 15-02-05

NOI, l´aborto, la violenza

di Anna Bravo


Carla Accardi



Ho scritto un lungo articolo sugli anni Settanta, titolo: Noi e la violenza, trent´anni per pensarci. Ora potrei scriverne un secondo sulla violenza che mi si è rovesciata addosso appena è uscita, sulle pagine culturali di Repubblica, un´intervista di Simonetta Fiori che presentava quel mio testo e il fascicolo della rivista Genesis dedicato ai femminismi del decennio. La storia del Novecento rischia sempre polemiche, quella della "stagione dei movimenti" è particolarmente esposta, ma non ricordo bagarre simili. Perché, eccetto alcuni interventi sereni, proprio di bagarre si è trattato, con il corredo di insulti e accuse di falso, incompetenza, intimismo, revisionismo (dall´altro ieri anche di ritrattazione). Devo essermi avventurata su un terreno minato.

Sono altrettanto indicative le modalità. Inizialmente si forza lo scritto di Simonetta Fiori, impegnativo ma di taglio necessariamente breve; oppure, vecchio stratagemma discorsivo, mi si fa dire qualche sciocchezza che non ho detto, e ci si applica a dimostrare il contrario. Nel giro di due giorni, scatta la logica del "so ben io di cosa parlo": all´articolo di Repubblica non ci si riferisce neppure più, basta alludere (qui vale la pena citare testualmente Elettra Deiana, Liberazione del 6 febbraio) alle "gravissime dichiarazioni di Anna Bravo", che dimostrerebbero come la "devastante marea montante della restaurazione cristiana bianca occidentale che va diffondendosi minacciosa nelle nostre contrade, a cominciare dagli Usa, (arrivi) fin dentro le pieghe della nostra stessa storia". Ma non esageriamo!

L´aspetto più sgradevole è che nessuna aveva letto le quaranta pagine del mio testo. Ci vedo non solo una mancanza di rigore culturale, ma una frivolezza che disdegna la fonte diretta, che dissuade dal dire "Preferisco di no" persino quando sembrerebbe elementare: prima leggo, poi parlo. Naturalmente è difficile affrontare quegli anni, perché sono stati anche il tempo in cui uno spaccato consistente di giovani persone ha sperimentato la presa di parola, la gioia di vivere e inventare in comune, e noi donne anche l´autocoscienza e spazi nuovi di libertà mentale. Per di più, "noi" è un pronome sconsigliabile, il cui ambito di riferimento va ogni volta specificato: femminismo "storico", delle donne radicali, del sindacato, dei partiti, dei gruppi extraparlamentari. Per questo si usa il plurale femminismi.

Sebbene ci si possa appoggiare a riflessioni e ricerche preziose di alcune donne (e di rari uomini), mi sembra ancora più difficile affrontare la storia del rapporto donne/violenza in quegli anni. Alcune militanti dell´Autonomia proponevano di creare Ronde rosa per difendersi dalla polizia. La Libreria delle donne di Milano elaborava la tesi dell´estraneità femminile come "scelta politica di separazione di un pensiero femminile differente". Dentro Lotta Continua c´era stato prima disagio, poi muro contro muro fra donne e servizi d´ordine. La libreria delle donne di Torino teorizzava il rifiuto "del sangue della croce, del sangue delle Rivoluzioni", ma - Moro prigioniero - sceglieva di non schierarsi fra lo Stato e le Br. E c´erano altre posizioni ancora, e ciascuna poteva variare nel tempo.

A me non interessa fare la contabilità della violenza femminile, ma lavorare sul rapporto con la distruttività di allora e sui modi in cui è stato (o no) ripensato. Non mi interessano tanto le protagoniste della violenza, quanto le molte donne che l´hanno incrociata, vista, tollerata, temuta. Donne che valutano appieno la differenza fra partecipare, essere spettatrici, contrastare, ma che condividono un´idea: da quegli anni e dalla responsabilità di cercare una misura onesta per raccontarli, è difficile chiamarsi del tutto fuori - a meno di considerare i violenti e i terroristi una specie un po´ meno umana della nostra.

Oggi dire che l´ideologia della violenza rifondatrice era cruciale nell´orizzonte della sinistra extraparlamentare (e non solo) è un semplice punto di partenza, e mi sembra quasi scontato aggiungere che il contesto ha avuto sì un peso, ma che è stato usato troppo volte per sgusciare fuori dal campo della responsabilità personale. Eppure esistevano alternative, e mi preme appunto ripensare agli incontri mancati, al non inevitabile effetto di cecità verso altre genealogie che derivava da quel mito della violenza. Chi di noi, donne e uomini, si è confrontato seriamente con i nonviolenti che digiunavano per il riconoscimento dell´obiezione di coscienza, con la disobbedienza dei radicali, con le opere di Thoreau, Gandhi, del nostro Capitini? E con che distratta condiscendenza guardavamo a Mondo Beat, la rivista dei cosiddetti capelloni, che in una campagna per la nonviolenza e contro il militarismo denunciava l´aggressione americana in Vietnam, quella sovietica in Ungheria, quella cinese in Tibet, riconducendole al primato dell´ideologia sulla vita.

C´è ancora da riflettere, e lo stesso vale per l´aborto. Trent´anni fa, credo che non potessimo pretendere da noi stesse più di quanto stavamo variamente elaborando, dalla denuncia dello scandalo degli aborti clandestini alla domanda radicale di Carla Lonzi: "per il piacere di chi sto abortendo?". Avremmo meritato una legge migliore. Che sia rimasta un´area di non detto, o non pensato, è addirittura ovvio ? eravamo giovani, nel pieno della lotta per la depenalizzazione, si viveva di corsa; sul possibile dolore del feto oltre un certo stadio della gravidanza, la medicina taceva, e infatti la parola sofferenza veniva riferita a una patologia, mai a una sensazione. Non so se qualcuna abbia formulato la domanda che viene spontanea di fronte a qualsiasi intervento chirurgico: "Farà male?". Sarebbe stata una buona presa di distanza dal potere medico-scientifico, di cui stavamo denunciando la simulazione di neutralità su altri terreni; e un passo in più sulla strada della cura. Se si dà credito al dolore delle donne, bisogna dar credito anche all´impegno (di molte, di alcune?) a non duplicarlo nel feto, dunque ad aumentare l´attenzione contraccettiva, e magari a sollevare la questione delle tecniche più protettive per provocare, o scongiurare, l´aborto. Interrogativi improbabili, allora - ma nessuna ha mai sostenuto che le sole domande da porre fossero quelle ragionevoli, rispettabili, a risposta garantita. Certo il clima non ci aiutava: fra noi (un noi ampio e misto) c´era ben poca sensibilità alla condizione aurorale, sospesa, terminale, o alla prossimità fra l´umano e il resto del mondo senziente. «Vi siete mai chiesti che cos´avranno pensato le capre di Bikini? E i gatti nelle case bombardate?», scriveva Calvino nel '46. La nostra risposta sarebbe stata: no.

Penso anche al dopo, e al presente, ai vari medici e ricercatori laici e pro choice che sul problema della sofferenza invitano a dare al feto il beneficio del dubbio, perché se una cosa va fatta, bisogna scegliere il modo meno doloroso per tutti; al fatto che in futuro sarà sempre più difficile distinguere non tanto fra persona e non persona, ma fra persona e persona (le manipolazioni genetiche e estetiche, il trapianto del volto e delle mani), fra vivente e non ancora o non più vivente, fra umano e tecnologico, fra natura e tecnonatura. La differenza, dice Rosi Braidotti, è diventata una categoria nomade. In questi giorni, penso ad alcune pacate inquietudini che ho avvertito.

Eppure, dire che il corpo femminile è vittima di manipolazione cruenta e nello stesso tempo tramite di una violenza contro il feto non equivale a equiparare aborto e terrorismo. E´ nominare un dilemma, angosciante, forse esposto a strumentalizzazioni; il rischio è che non si trovi mai il momento adatto per enunciare temi controversi.

Sì, il rapporto con la violenza è un punto delicato, ma non necessariamente un punto debole, tanto più che, come problema storico-teorico e come dannazione del presente, molte donne se ne sono fatte carico. Perché non discuterne pacificamente? Tutto quel che ho scritto qui si trova nel testo ignoto.