La sfida della libertà delle donne nella globalizzazione
Mettere in discussione tutte le culture, anche la nostra

di Elettra Deiana


Afghanistan 2004


Il contesto mondiale della globalizzazione, nel vertiginoso sviluppo della rete mediatica che quotidianamente è in grado di offrirne in diretta la rappresentazione dei problemi e delle contraddizioni più stridenti, è oggi, il luogo di avvistamento più efficace per analizzare e interpretare da un punto di vista femminista l'evoluzione delle relazioni tra donne e uomini.
Si misura veramente, a questo livello, la difficoltà a parlare in esclusiva il nostro linguaggio, di noi bianche occidentali - che è di parte, connotato, identificabile - come se si trattasse di un linguaggio assoluto e universale. Si misura quanto sia vano delineare percorsi di libertà femminili nel mondo adottando in automatica gli schemi di riferimento che hanno segnato la nostra storia, giudicando a partire da là avanzamenti o sconfitte, scacchi o esultanze.

Questo non significa soggiacere a un indifferenziato relativismo culturale, né - mai - gettare il bambino con l'acqua sporca, accusa invece mossa a una parte del femminismo da Monica Lanfranco in un articolo pubblicato il 1° febbraio su queste pagine. In un'epoca così drammaticamente segnata dalle insidie di un pericoloso revisionismo storico che mette sotto tiro con ossessiva occhiutaggine gli stessi contenuti di fondo dell'affrancamento umano dai ceppi della subalternità e dell'oppressione, le grandi acquisizioni di liberazione e libertà femminile conseguite nei Paesi occidentali vanno considerate in tutto l'immenso valore storico-antropologico oltre che politico che hanno. E dunque come potenziale risorsa di esperienza umana che può offrire qualche aiuto - grande o piccolo non importa - a tutte per il fatto stesso di essere state - queste acquisizioni - pensate, nominate praticate. L'emozione di scoprire le tracce di altre donne nel mondo sappiamo quanto valore abbia per aprire varchi di libertà nella nostra vita. Vanno difese di fronte alla devastante marea montante della restaurazione cristiana bianca occidentale che va diffondendosi minacciosa nelle nostre contrade, a cominciare dagli Usa e fin dentro le pieghe della nostra stessa storia, come le gravissime dichiarazioni di Anna Bravo su La Repubblica del 2 gennaio dimostrano.

Ma questa straordinaria risorsa certamente non può essere considerata alla stregua di un modello né tanto meno come "il" modello. Occorre avere chiaro che la vera sfida è oggi la costruzione di punti di incontro, pratiche di confronto, decostruzioni critiche delle culture esistenti. E' cioè l'elaborazione di un contesto culturale di scambio che sia veramente nomade e di frontiera, che si ponga consapevolmente e responsabilmente l'obiettivo di andare oltre le cose esistenti, recuperando, dove c'è, il meglio e l'ancora utilizzabile delle culture di ieri e sviluppando gli strumenti per individuare, valorizzare, portare al mondo il meglio che nasce.

Poi c'è il peggio delle cose e contrastarlo efficacemente fa parte egualmente di questa sfida.
La pratica delle mutilazioni genitali costituisce il più insondabile e osceno grumo nero del patriarcalismo tribale che opprime in vaste porzioni del territorio africano la parte femminile della società. Contrastare qui da noi - in questo noi ormai globalizzato su tutti i versanti - anche con il rigore della legge una simile pratica arcaico-comunitaria, è cosa a dir poco ovvia. Chi potrebbe dubitarne? Ma con quali argomenti, approcci, strumenti normativi? Con la supponenza occidentale dei diritti umani versus la barbarie del "diverso" o con la fatica dell'incontro con le altre che subiscono la violenza ma ad essa guardano con sguardo diverso dal nostro? Con l'esclusiva e autoreferenziale hibrys giuridica o con l'approssimazione successiva delle soluzioni anche in sede di definizione della norma e sempre con la ricerca del dialogo e delle soluzioni combinate sul piano sociale? E soprattutto con la scoperta e la valorizzazione dei complessi percorsi intrapresi nei luoghi d'origine dalle donne che in prima persona subiscono l'oltraggio nei loro corpi e in prima persona se ne vogliono sottrarre? Accade sempre più spesso nei paesi africani colpiti da quella piaga ancestrale che segna le relazioni di genere. Le donne oggi ne sono protagoniste, molti uomini danno loro retta.

Il velo e le mutilazioni genitali non sono la stessa cosa. Metterle in un unico calderone significa tagliare il mondo secondo la logica del bianco e del nero, del male e del bene. Privarsi dell'incontro fecondo di sguardi diversi sul mondo. Così come non si può non verificare e capire che cosa ci sia effettivamente dietro quel velo, supponendo che sempre siano in azione soltanto misoginia e violenza maschile contro le donne. Quasi sempre è così. Da sempre. Chi può dubitarne? Ma sempre più spesso c'è anche altro - autodifesa femminile, mimesi comunitaria, scelta identitaria. E anche protagonismo femminile - occorre farci i conti - come nelle banlieus parigine, tra le figlie di terza e quarta generazione di una società immigrata a disagio, perché rimasta ai margini dell'antica grandeur di un Paese che dopo aver oppresso non è stato in grado di restituire nulla.

L'errore più grande, proprio per questo, è ridurre la laicità - uno dei punti alti e irrinunciabili della nostra storia - a ossessiva ideologia a senso unico dello Stato, anziché farne potente strumento di convivenza e di ricerca di soluzioni - pratiche simboliche normative - che non solo permettano e facilitino la convivenza ma costruiscano la strada per camminare veramente insieme e, intanto, il meno lontani possibile. C'è il segno di un inedito fondamentalismo cristiano bianco occidentale in alcuni fenomeni a cui stiamo assistendo in questa nostra tormentata contemporaneità, assai diverso e sicuramente più insidioso della tradizionale vocazione della chiesa cattolica di farsi sede esclusiva dell'etica e di invadere la sfera pubblica di competenza dello Stato. Più insidioso perché in nuce nuovo instrumentum regni.

Negli Stati Uniti non a caso il fenomeno ha acquisito una dimensione pubblica rilevantissima e oltre misura invasiva, costituendo il contesto di riferimento scelto dal presidente Bush per legittimare la sua missione civilizzatrice nel mondo. Il 7 novembre del 2001, in occasione della guerra contro l'Afghanistan, la consorte del presidente americano, Laura Bush, ebbe l'impudicizia di rivolgersi alla nazione con un discorso radiofonico spiegando che l'invasione si rendeva necessaria per liberare le donne dal burqa e dare così una risposta positiva all'orrore che quel burqa suscitava nei popoli del mondo.

Intorno al corpo delle donne, a quel loro essere radice biologica esistenziale simbolica di ogni desiderio umano e di ogni esigenza politica di certezza identitaria, si gioca oggi una partita che sta già avendo esiti assai dolorosi e che può pesantemente frapporsi a ogni altro cammino di liberazione umana delle donne, ributtandole indietro di decenni. Anche nel felice Occidente.

I percorsi di soggettività e libertà femminile sono stati sempre complessi, oltre che difficili e complicati. Carsici, sovente indecifrabili. Come tutti i grandi avvenimenti che hanno dato origine a mutamenti importanti negli assetti sociali e simbolici, anche quei percorsi sono stati il frutto di una lunga storia di lotte organizzate, portate avanti per lo più da attrici invisibili e "senza potere", qua e là - molte di più di quanto se ne sappia normalmente - da coraggiose protagoniste che si esposero in pubblico. Le donne hanno lavorato per un secolo per ottenere il diritto di voto, prima che diventasse una realtà in Occidente, nella seconda metà del secolo scorso e costituisse un'acquisizione concettuale "normale" anche oltre il perimetro del mondo occidentale. Lo spazio creato dalle grandi idee di liberazione è certamente fondamentale ma ancor più fondamentale è la mediazione che si crea tra le idee e i soggetti incarnati, tra chi in nome di quelle idee esercita il potere e chi non ha potere. I principi della rivoluzione francese non evitarono a Olimpia de Gouges, che voleva appropriarsene in nome delle donne, di salire la forca per decisione di un tribunale rivoluzionario.

Che cosa della nostra storia mettiamo oggi in gioco e soprattutto come, attraverso quali pratiche parole sentimenti ne facciamo risorsa e scambio tra tutte. Da qui può trovare nuovo alimento il femminismo di cui abbiamo bisogno.

 


questo articolo è apparso su Liberazione del 6 febbraio 2005