Doppio sguardo sulla libertà di generare

di Maria Grazia Campari

 

La mia relazione prende avvio e si articola su due obiettivi enunciati dal Comitato “Quando decidiamo noi”:
affermazione dell’autodeterminazione della donna nelle scelte di maternità e affermazione del primato della madre.

Intendo iniziare un esame critico sulla gradazione di libertà consentita alle donne nella scelta sul se e sul come procreare, un esame che può avvantaggiarsi di un doppio sguardo, sull’ordine esistente e sull’ordine possibile.

Mi sembra importante sperimentare tentativi di dare esistenza ad un ordine nuovo anche attraverso riflessioni e pratiche volte ad un uso appropriato dei mezzi offerti dalla democrazia; un percorso pendolare dalla partecipazione di base alle pratiche istituzionali.
Il dato di partenza è che siamo oggi in presenza di normative che sono espressione di un nucleo regressivo antidemocratico, che offusca il sistema dei diritti, nega, in particolare, per le donne, i fondamentali diritti civili della personalità, dissolvendo ogni eguaglianza di fronte alla legge.

Solo in via esemplificativa, ci si può riferire ad alcune prescrizioni legali, vigenti o in via di elaborazione: la proposta di legge che modifica l’art. 1 del Codice civile mediante retrodatazione della capacità giuridica del soggetto dalla nascita (previsione attuale) al concepimento (previsione proposta); l’art. 1 della legge regionale lombarda n. 170/1999 che enuncia il suo scopo principale nella “tutela della vita in tutte le sue fasi, con particolare riguardo a quella prenatale” e considera il concepito già componente della famiglia per l’attribuzione di alcune provvidenze. Oppure la legge n. 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita che attribuisce diritti soggettivi all’embrione e impone divieti di varie pratiche fecondative attraverso un apparato sanzionatorio penale.

Inoltre, dal 2005 si ha notizia del fatto che giace in Parlamento un progetto di legge ispirato dal “Forum delle famiglie” che prevede, oltre alla sistematica presenza di volontari della vita in tutti i consultori e le strutture sanitarie, anche la costituzione di una Autorità nazionale per le politiche famigliari, deputata alla sorveglianza della compatibilità fra funzioni pubbliche o private e funzioni famigliari, con particolare riguardo alla educazione dei figli.
Facile intuire il sesso degli inquirenti e quello delle inquisite.

Si manifesta una trama intessuta di attacchi alla libertà femminile di scegliere e perseguire il proprio autonomo progetto di vita che appare anche, se non principalmente, l’esito del monopolio maschile sulla politica istituzionale, che concettualizza la donna come l’altro, l’oggetto del discorso e della norma, passibile di gesti di prevaricazione.

Un clima sociale che rende atti di violenza come la violazione dei diritti della personalità, una possibilità istituzionale sempre presente, con passaggio dal piano dell’illecito al legittimato (consentito dalla legge).
Ciò reca anche grave danno alla democrazia costituzionale poiché, come è stato detto, esiste un nesso fra questa e i diritti fondamentali attribuiti ad ognuno/a come frammenti di sovranità contro la prepotenza del potere costituito.

Occorre, allora, considerare i principi fondamentali che definiscono il quadro degli ordinamenti giuridici democratici.
Si noterà che essi prevedono alcuni diritti quali attributi intrinseci alla comune umanità. Fra questi, espressione primaria del diritto di libertà, la libera disposizione di sé riconosciuta a ciascun individuo.

Come si è visto, però, non è questa l’esperienza femminile: essa, infatti, tradizionalmente registra un controllo pervasivo della facoltà e della scelta riproduttiva, secondo uno schema obbligante che incide sulla vita biologica del corpo, che esita in una costrizione potenziale rispetto alla libera autodeterminazione delle scelte di vita.

Le leggi e i progetti sopra menzionati in via esemplificativa, esplicitano con chiarezza esemplare la tensione legislativa all’invasività rispetto alla sfera deliberativa personale delle donne: l’occhio pubblico le invade e ne costringe la libertà di scelta, facendo del concepito e della sua vita una immediata materia di Stato.
Una opzione che ben si può considerare come esplicitazione di biopolitica: la vita biologica, divenuta indissociabile dalla organizzazione tecnologica, è fatta oggetto di dispositivi attraverso i quali il potere esercita un controllo capillare, emana regole e definisce orientamenti che operano una scissione fra il soggetto e il suo corpo, funzionalizzato a fini non propri, visti come socialmente rilevanti.

La pesantezza della scelta legislativa incide in profondità nel tessuto dei diritti primari.
L’esame non può che incentrarsi, allora, su categorie giuridiche.
Il diritto appare come il sistema per eccellenza: una serie di regole emanate da fonte apparentemente oggettiva e autorevole che disciplina l’azione sociale: giusta, ingiusta, socialmente apprezzabile o riprovevole, determina l’ordine del vivere associato.
Se consideriamo il nostro ordinamento giuridico, non potremo evitare di notare che la sua struttura di origine monosociale (il legislatore è funzionalmente maschile) ha prodotto un ordine binario oppositivo che sfuma fino alla inesistenza la relazione fra soggetti, per valorizzare la relazione da soggetto a oggetto.

Il soggetto è uno, naturalmente di genere maschile.
La maggior parte dei diritti appare definita attraverso formulazioni che alludono all’avere: un approccio oggettivante che esita nell’apparente scissione fra soggetto e corpo, visto quasi come una cosa, un involucro materiale.

Questo esito sembra derivare dall’unicità del soggetto ordinatore, inconsapevole del limite, incurante dei valori altrui, cioè di soggetti diversamente sessuati portatori di diverse esperienze esistenziali. Quindi, questo ordine non consente di prevedere altro che relazioni da soggetto a oggetto e assai poco ci dice della relazione fra soggetti.
Ne consegue che in questo stesso ordine non si è potuta elaborare una regola autonoma per il potere procreativo femminile, che mette in campo piuttosto che il rapporto da soggetto ad oggetto, la relazione fra soggetti poiché valorizza il vincolo nella responsabilità verso l’altro. Questo aspetto non ha trovato riscontro adeguato negli istituti giuridici vigenti a causa del marchio a-relazionale e proprietario che li connota.

La conseguenza è la mancata iscrizione nell’ordinamento del principio di libertà procreativa e di inviolabilità del corpo femminile.
Infatti, anche il diritto di libertà, che si esprime nella formula tradizionale di habeas corpus, nel suo attuale significato di assenza di costrizioni (libertà negativa) e di possibilità di autodeterminarsi (libertà positiva) viene interpretato nell’ordine vigente, di stampo patriarcale, secondo principi che sono connotati dalla valenza proprietaria dell’avere.

In particolare, per le donne, il diritto di libertà iscritto nelle Dichiarazioni universali, nelle Costituzioni nazionali, nei Trattati internazionali, a stento può essere inteso nella sua accezione positiva come diritto alla libera disposizione di sé nella autodeterminazione procreativa.
Contro l’habeas corpus delle Costituzioni formali si erge il sovrastante vigore delle costituzioni materiali, che impongono la disponibilità del corpo femminile a determinazioni esterne.

Di qui, il ciclico ripresentarsi di normazioni che manifestano tendenze esplicite a disposizioni proprietarie sul corpo femminile, compiute come nella legge sulla procreazione medicalmente assistita, attraverso la enfatizzazione della metafora della vita cui viene attribuita una soggettività solo apparente, anzi mistificatoria, poiché il vivente non parlante, privo di capacità relazionale, è fatto oggetto di pensiero e volontà altrui, applicati in modo autoritario, nella falsa rappresentazione che ciò sia per il suo bene.
Una operazione dai connotati oscuri e dalla valenza ideologica assai chiara: rendere oggetto disponibile all’unica determinazione pienamente visibile sulla scena sociale, quella maschile, il soggetto femminile.

Una negazione di libertà positiva, quale si è venuta determinando nell’esperienza femminile, plasmata, come si è detto, sul dato della generazione, nella relazione fra soggetti, nel riconoscimento dell’altro e nel rispetto delle esistenze in gioco.
All’origine della incongruenza apparente fra proclamazioni generali di diritti di libertà e norme particolari costrittive sta, a mio parere, la difficoltà della legge a contenere i corpi e a risolvere, con apposita regolamentazione, il conflitto di genere sulla riproduzione.

In particolare, alcune disposizioni sollecitano interrogativi su legge e corpo. Si potrebbe sostenere che il corpus legislativo non preveda il corpo.

Il diritto appare complessivamente fondato sulla presupposizione di assenza dei corpi sessuati, formula regole astratte che compiono un percorso immediato dal soggetto pretesamente neutro e astratto, il legislatore, alla generalità dei soggetti neutri regolati: la regola è generale, rivolta a chiunque, vale per tutti i consociati, comunque sessuati.

Apparentemente, il legislatore astrae dal suo corpo/mente maschile.
In realtà, è la volontà che sorge dal suo corpo/mente quella che conforma la regola, mentre la donna vi è subordinata, è soggetto regolato. Non a caso un corpo compare a più riprese nella legge e vi è normato anche costrittivamente, il corpo femminile.

Le donne, fino agli anni settanta del secolo scorso, sono state oggetto di un apparato minuzioso di regole, a causa della loro speciale e asimmetrica capacità riproduttiva. Per loro, la sobrietà del legislatore nel disporre della relazione di ciascuno con il proprio corpo, non aveva corso.
Negli anni settanta, leggi di attuazione di principi costituzionali quali la parità fra i sessi e il diritto alla salute come bene individuale e interesse collettivo, hanno prodotto regole più sobrie per entrambi i sessi, quanto alla relazione di ciascuno con il proprio corpo, disposizioni più rispettose dei principi di autodeterminazione e autoresponsabilità.

In seguito, via via che la ricerca scientifica e la tecnologia hanno proposto soluzioni che inducono nuovi quesiti sulla relazione di ciascuno con il proprio materiale genetico, il legislatore ha assunto l’iniziativa nelle forme del controllo sul corpo femminile e della proibizione, che negano autonomia e responsabilità.
Mentre si allargano le frontiere delle possibilità e alcuni vincoli naturali appaiono superati, le nuove possibilità vengono sottoposte a nuove discipline fortemente costrittive.

Questo è, ad esempio, il senso complessivo della legge sulla procreazione medicalmente assistita che, ancora una volta, apparentemente, ignora i corpi, li ignora al punto di rendere soggetto chi ancora non possiede il corpo, il concepito.
La finzione giuridica di considerare soggetto di diritto un essere non dotato di esistenza autonoma implica la necessità di un curator ventris, soggetto terzo rispetto alla donna, destinato a rapportarsi al concepito attraverso il corpo della madre, funzionalizzato a supposti diritti non suoi propri. Ciò che mette radicalmente in discussione, fra l’altro, la responsabilità femminile sulla procreazione.
Si prefigurano, come giustamente osserva il giurista L. Ferrajoli, destini femminili segnati da forme di servitù personale, quale l’obbligo di gravidanza, che sono inconcepibili nei moderni ordinamenti i quali prevedono la libertà di scelta rispetto al proprio progetto di vita come articolazione del diritto alla libertà di pensiero e al libero svolgimento della personalità.

Ma si può dire di più: questo apparato normativo, con le sue evidenti implicazioni, sembra mostrare in trasparenza un conflitto di genere sulla riproduzione, risolto attraverso divieti e sanzioni penali, una scelta contraria all’atteggiamento discorsivo e attento alle ragioni altrui, aliena dal tentativo di sperimentare tutte le mediazioni possibili, che sono il tessuto connettivo della democrazia partecipata.
In questa materia pare, quindi, opportuno dare ampio riconoscimento al concetto per cui alcuni diritti che si richiamano al fondamentale principio della libertà attiva individuale sono indecidibili dal legislatore, salvo che non si intenda imporre una dogmatica etica di Stato, in antitesi all’etica laica conformata su di un modello pluralista e dialettico, aperto ad opinioni diversificate.

In particolare, per le donne sembra più che mai divenuto urgente contrastare il disegno di poteri sovraordinati di esercitare egemonia sul simbolico femminile, “contrastare l’universalismo della misoginia” (felice espressione di J Butler), mettendo a tema la creazione di un diverso ordine giuridico che registri la loro soggettività, ponendo fine alla eteronomia, contemporaneamente promuovendo anche una lotta per i diritti di tipo transnazionale.

Qui entra in campo l’ipotesi di utilizzare l’esperienza esistenziale femminile per esercitare un doppio sguardo sull’esistente e modificarlo in radice.
Il semplice richiamo ai concetti dell’attuale democrazia costituzionale (monosessuata) non basta . E’ una democrazia incompleta, che slitta fatalmente, nella non democrazia

Occorre, invece, modificare l’ordine giuridico dato e la sua valenza eteronormante per le donne, ciò che potrebbe darsi operando vuoti, mutando il senso di alcune o molte regole esistenti attraverso l’inserimento di valori creati nelle relazioni fra donne, riconosciute come dotate di rilevanza sociale e politica; regole connotate dal fatto di originare da e stabilizzare interessi e desideri femminili. Scelte metagiuridiche volte a produrre norme frutto di confronto e mediazione fra principi che si danno nel concorso fra soggetti sessuati consapevoli della loro parzialità.
Poiché tutto esiste in natura e, in qualche modo, anche negli ordinamenti giuridici, il nuovo si crea consumando e riarticolando il vecchio: è qui che entra in gioco una lotta per i diritti a carattere transnazionale.

Nell’ambito dell’Unione europea, le femministe italiane potrebbero sostenere la campagna promossa dalle francesi di “Choisir la cause des femmes” tesa ad ottenere il riconoscimento e l’armonizzazione verso l’alto  delle leggi nazionali, attraverso la ricognizione e l’applicazione generalizzata della clausola più favorevole ai diritti delle donne.
Si tratterebbe di costituire un corpo di leggi da applicarsi in ogni Stato membro attraverso regolamenti comunitari, in linea con il programma 2006-2010 per l’uguaglianza fra uomini e donne adottato dalla Commissione.

La prima regola generale, estrinsecazione dell’habeas corpus, dovrebbe essere quella che estende in tutti gli Stati dell’Unione il diritto insindacabile delle donne di scegliere se ed in qual modo dare la vita.
Il complesso normativo si presenta assai articolato, tocca vari aspetti dell’esperienza esistenziale femminile. In particolare, il tema dell’inviolabilità del corpo/mente delle donne compare diffusamente nella legislazione vigente in Spagna, paese cattolico come il nostro, ma che, tradizionalmente, ha mostrato grande considerazione verso la libertà procreativa femminile e notevole capacità di miglioramenti legislativi riferiti agli esiti delle innovazioni scientifiche. Ciò, indipendentemente dal colore politico dei governi in carica.

Vi è un ulteriore motivo per caldeggiare una agenda di diritti agganciati alla appartenenza alla Unione europea: il valore della laicità contro un uso retrogrado delle credenze religiose, volte a creare dipendenza soprattutto a carico delle donne, con la pericolosa tendenza a trasferire il dogma religioso nelle leggi dello Stato.

Nell’Unione europea, la laicità è stata considerata valore implicito indiscusso e condiviso.
La questione è stata affrontata esplicitamente in conclusione dei lavori della Carta dei diritti fondamentali: in quella occasione sono state respinte le pretese di inserire nel Preambolo il richiamo alle radici religiose della cultura europea e di limitare alcuni diritti in nome della visione cattolica della società.

Seguendo il pensiero del giurista S. Rodotà, possiamo concludere osservando che in un mondo globalizzato, retto da poteri economici transnazionali spesso feroci, aggrapparsi ai diritti, avanzare la pretesa alla generalizzazione delle loro espressioni più avanzate in termini di garanzie, come proclamate in Dichiarazioni universali, Costituzioni, Carte, Trattati, leggi nazionali, significa imboccare una via che consente misure di giustizia evolutiva per i soggetti tenuti a distanza rispetto ai luoghi del potere decisionale. Significa collocare affermazioni di libertà individuale in un ottica che vede profilarsi all’orizzonte la ricostituzione di forme e contenuti di democrazia partecipata plurisessuata, oggi quasi completamente cancellata attraverso misure di totalitarismo patriarcale egocentrico, che sembra perseguire il fine di segregare l’altra in una periferia di umanità del tutto irrilevante.

relazione tenuta al seminario UDI tenutosi a Milano il 19 luglio 2008

17-09-2008

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