Cerco di riprendere qualche stimolo nato dai precedenti interventi. Se siamo costrette a misurarci con questo scenario di orrori mediatici descritti da Daniela forse è perché non c’è più la vita, non c’è più la vita lì dove dovrebbe esserci, cioè nella polis. Polis in cui non esiste quello spazio pubblico di cui appunto abbiamo parlato. Spazio pubblico inteso come spazio della voce pubblica delle donne, una voce pubblica autodeterminata, quindi resistente allo sfruttamento mediatico che se ne impadronisce svuotandola di senso e di reale protagonismo, la cui assenza si è sentita molto fortemente, secondo me, in occasione delle recenti polemiche riguardo al presunto silenzio delle donne. Non c’è stata una possibilità di controrisposta perché chi ha parlato, alla fine, non erano poi le femministe, ma erano donne che stavano per così dire sulla scena. Una finta scena pubblica: i corpi di cui si è parlato tanto sono di donne che credono di stare sulla scena pubblica e che invece sono semplicemente merce da vetrina in questo enorme supermercato in cui ormai il mondo si è trasformato. Il discorso sullo spazio pubblico dunque poggia su due terreni: uno è il terreno fisico che riguarda il modo in cui le donne con il proprio corpo sessuato abitano e vivono nella città, nella polis dunque intesa in senso spaziale, e l’altro riguarda l’esistenza delle donne come soggetti incarnati di trasformazione della polis intesa in senso simbolico-politico, quella polis dove il vecchio potere perennemente tenta di contenere la potenza trasformatrice dell’alterità femminile. Queste donne che mettono i corpi al lavoro sono emancipate? Intanto, non è la prima volta nella storia: sono cambiate le circostanze, il mondo rispetto al Settecento e all’Ottocento è radicalmente cambiato, tuttavia sono sempre esistite singole donne che hanno usato la propria bellezza e il proprio fascino persino a livello di diplomazia internazionale. Però come l’hanno usato? Non per propria scelta autodeterminata, personale, soggettiva, quindi non come soggetti, ma al servizio di disegni altrui, disegni naturalmente maschili, e quindi siamo sempre allo stesso punto. Quale emancipazione può darsi quando non c’è una soggettiva progettualità di vita che riguardi anche la collettività? Quello di cui si parla ora secondo me è piuttosto un’introiezione, aver cioè introiettato quei valori, quei modelli di vita che sono stati disegnati da altri, non certo dalle donne, e credere di averli scelti in modo libero. Un’introiezione che per me non equivale all’emancipazione. Mi viene in mente un esempio un po’ strano, che riguarda il velo e le donne islamiche. C’è qualcuno che dice che il velo non è una cosa che si può considerare in maniera rigida, fissa, ma che è storicizzabile, dinamica. Lo chiamano “il velo dinamico”, perché ci sarebbero donne che, a livello di consapevolezza, oggi portano il velo non come segno di subordinazione ma come segno identitario. Adesso non voglio entrare a fondo in questo discorso, voglio solo dire che evidentemente queste donne hanno “introiettato” imposizioni secolari e in un certo senso ora le rovesciano facendone una scelta personale. Ma io non credo che sia davvero una scelta soggettiva perché il frame, la cornice storica e culturale in cui s’inscrive non è stata disegnata dalle donne. Finché non saranno le donne a rendersi protagoniste e soggetti di una nuova ipotesi di società non penso che vi sarà vera emancipazione, ci sarà un’emancipazione di tipo individuale, ma non ci basta. Dobbiamo tornare anche al noi che non può essere assolutamente eluso in un discorso politico, l’io e il noi devono stare insieme in questo percorso di autocoscienza e di soggettività. Secondo me l’ecologia, proprio come il conflitto fra i sessi, attraversa tutti gli aspetti della costruzione sociale, è trasversale, e proprio come il femminismo svela la parzialità non solo del concetto di sviluppo ma anche del concetto di democrazia che oggi si rivela insufficiente perché non prende in considerazione nuove responsabilità rispetto alle questioni di genere e rispetto agli equilibri ambientali planetari, responsabilità non incluse nel concetto di democrazia quale finora si è inteso. Come dice la scienziata e filosofa indiana Vandana Shiva, nell’introduzione al suo libro Il bene comune della Terra, “la globalizzazione imposta dalle multinazionali concepisce il pianeta in termini di proprietà privata. Al contrario, i nuovi movimenti difendono le risorse locali e globali del territorio perché lo intendono come bene comune. Le comunità che insorgono in ogni continente per contrastare la distruzione delle loro diversità biologiche e culturali, dei loro mezzi di sostentamento e delle loro stesse vite costituiscono l'alternativa democratica alla trasformazione del mondo in un gigantesco supermercato, in cui beni e servizi prodotti con costi ecologici, economici e sociali estremamente alti vengono rivenduti a prezzi stracciati”. E spiega che “opponendosi a questa globalizzazione liberista e suicida che inquina il pianeta, dilapida ogni risorsa e impone la dislocazione forzata di milioni di contadini, lavoratori e artigiani, le comunità si impegnano a sviluppare economie alternative che proteggono la vita e promuovono la creatività individuale. La globalizzazione economica si configura come una nuova forma di enclosure of the commons, la recinzione delle terre comuni britanniche, come una privatizzazione imposta attraverso atti di violenza e dislocazioni forzate. Anziché generare abbondanza, questa privatizzazione subordinata al profitto produce nuove esclusioni, nuove espulsioni e maggiore povertà. Non solo, ma trasformando in merce ogni risorsa e forma di vita, essa depriva anche i popoli e le specie viventi dei loro fondamentali diritti in termini di spazio ecologico, culturale, economico e politico”. Nelle nostre città possiamo vedere in nuce tutto questo, città ormai svuotate di interazione sociale che è poi il motivo per cui le città stesse sono nate, ma senza interazione sociale le città si trasformano in un enorme non-luogo in cui accadono cose inquietanti. A questo proposito, vorrei citare qui due pareri. In merito a un’indagine su Milano del Laboratorio di Cartografia Sociale dell'Università Bicocca, dice Francesca Zajczyk: “A Milano siamo già abituati alle cerchie concentriche, si sa che più ti avvicini al centro, e meglio è tutto quanto: i palazzi, i negozi, i servizi, il verde, la sicurezza, il decoro, perfino la frequenza del tram. Provate a immaginare quanto diventa più dura la città, man mano che le cerchie si fanno più impermeabili, più rigidamente separate, quanto costa di più in termini di minuti e stress quella mobilità secondaria, dallo spostamento per la palestra a quello per prendere i figli a scuola o fare la spesa, che ricade soprattutto sulle donne. Poi ci sono i giovani: non ci si crederebbe, ma già oggi ci sono quartieri periferici dai quali i ragazzi non si muovono mai, è un dato venuto fuori da molte risposte, che abbiamo analizzato, ai colloqui di lavoro: c'è chi vive la Barona come un habitat che conosce e da cui è riconosciuto, mentre ‘fuori’ teme la stigmatizzazione sociale. In pratica, giovani che hanno paura di uscirne e non hanno mai neppure preso la metropolitana. Non è difficile prevedere che andrà anche peggio, se su questi squilibri ingiusti non si interviene con degli strumenti di regolazione, portando socialità dove non c'è e incoraggiando il mix di persone, redditi e stili di vita differenti che è stato per decenni una virtù di Milano”. Non meno radicale è la visione dell’urbanista Enzo Scandurra: “C'è stato un attacco al bene pubblico, la città è diventata un bene privato. Si va verso una città blindata di quartieri recintati. […] In un paese degradato in cui andrebbero fatti interventi pesanti di riqualificazione si dà invece autorizzazione in deroga ai piani e si concede di costruire anche il venti per cento di cubatura in più. È una cosa scellerata che favorisce gli spiriti animali. Si fa appello alla parte più egoista degli individui perché cerchino la propria salvezza indipendentemente dal bene pubblico. Questa legge berlusconiana non solo aumenta lo scempio del territorio, sortisce anche l'effetto di alimentare l'egoismo, il tornaconto privato, il familismo amorale di cui parlava negli anni '50 l'antropologo americano Edward Banfield, […] Forse la sinistra tramontata l'età d'oro dell'urbanistica ha sottovalutato l'impatto di questa ondata immobiliare sugli stili di vita degli individui. Non ha saputo evitare che prendesse piede una concezione privatistica della città tutta ripiegata sugli egoismi privati. Si può forse ancora rintracciare nelle propaggini delle metropoli un'idea minima di città, un sistema di relazioni sociali e di servizi? Ciascuno è isolato nel proprio nucleo domestico, ciascuno si rappresenta l'esterno come fonte di pericolo. C'è da meravigliarsi se le periferie diventano terreno della paura, dell'insicurezza, per inciso serbatoi di voti della destra? Non sarebbe tempo per la sinistra cominciare a riflettere sul nesso politico tra (l'assenza di) programmazione urbanistica e stili di vita e di pensiero degli individui nei territori metropolitani? Io parlo ormai di post-periferie in linea con il postfordismo del nostro tempo. Se uno a Roma si fa un giro oltre il raccordo anulare in certi posti come Bufalotta e Ponte di Nona scopre un deserto sociale. Non si incontra una persona per strada nonostante siano quartieri che ospitino più o meno un centinaio di migliaia di abitanti. I negozi sono chiusi, le case sono tutte uguali quasi come a celebrare l'anonimato, la mancanza di un qualsiasi tessuto sociale. Hannah Arendt parlava della felicità pubblica. La democrazia, diceva, si può esercitare soltanto su uno spazio pubblico. In queste postperiferie non c'è più nulla, c'è soltanto il centro commerciale. Ci siamo persi qualsiasi vincolo, sono scomparsi i rapporti di vicinato, i legami di solidarietà e di convivenza. Non voglio finire nella celebrazione dei tempi che furono quando si lasciava la chiave alla porta, ma fatto sta che oggi queste palazzine sono reclamizzate perché dotate di sofisticati sistemi di sicurezza, di porte blindate, di finestre con le sbarre, di videocitofoni di sorveglianza. Siamo nella dimensione più privata possibile.” Anch’io tempo fa avevo pensato e scritto qualcosa a questo proposito: “Confini invalicabili ormai esistono anche dentro le città. Barriere invisibili che isolano individui e gruppi in tanti mondi a parte. Milano ne è un esempio. Ieri nel centro cittadino convivevano fianco a fianco persone di differente età e condizione sociale. Era l’immagine del mondo reale con la sua eterogeneità, la mescolanza, anche le crudeli differenze. Oggi l’esodo forzato degli ultimi vecchi e delle ultime botteghe dalle antiche case, ristrutturate in condomini extralusso, ha fatto del centro di Milano un luogo asettico dove, come in un acquario, vivono soltanto alcune specie protette: architetti, stilisti, modelle, finanzieri, divi, calciatori. E banche. Un omogeneo bosco elitario, insomma, non certo una foresta naturale ricca di molteplici essenze. Così si formano nuove caste e nuovi paria. È un fenomeno che non riguarda però solo il centro. Anche altre zone della città si sono gradualmente uniformate al proprio interno, anche nelle estreme periferie si riproducono meccanismi di selezione/esclusione legati a paradossali concetti di status, rinviando all’idea di confine come barriera eretta a difesa di un privilegio, non importa quanto reale o immaginario. […] Invece un tempo la città, la piazza, il mercato erano i luoghi dell’incontro, della parola, della conoscenza, del rapporto con il mondo e con la realtà.” (“Per altre vie – Donne tra guerre e nazionalismi”, p. 50).
31-10-2009
|