I “valori” sospetti dell’Occidente
di Lea Melandri

 
Milano, 14 gennaio 2006

 

La condanna di qualsiasi discriminazione nei confronti della donna, sostenuta a gran voce dalle manifestazioni e dalle assemblee del femminismo nel corso delle due ultime vicende elettorali, è balzata all’improvviso in testa a quei “valori” che la nostra civiltà vorrebbe vedere sottoscritti da tutti coloro che, venendo da “fuori”, desiderano farne parte. A produrre questo slancio di sensibilità, finora marcatamente latente, sono stati, per un verso, casi estremi di violenza contro le donne, omicidi e stupri, ad opera per la maggior parte di immigrati, e, per l’altro, la discussione che ha fatto seguito alla proposta di Giuliano Amato di abbreviare gli anni necessari per la richiesta della cittadinanza.

Le prime considerazioni che mi vengono da fare sono ovvie, quasi banali. Per un singolare capovolgimento, la violenza manifesta diventa il segnale di allarme privilegiato  -per non dire unico in grado di scuotere coscienze maschili, e purtroppo anche femminili, intorpidite- di quella prevaricazione o dominio maschile che ne è, se non la causa, il terreno sociale, psicologico, culturale, in cui cresce, di cui si alimenta e da cui trae soprattutto la sua legittimazione.

La violenza contro le donne ha avuto ed ha tuttora una molteplicità di forme e di espressioni: a volte parla silenziosa e perfettamente mimetizzata il linguaggio dell’amore, del pregiudizio inconsapevole, delle consuetudini ereditate, dei fantasmi collettivi; altre volte, veste decisamente i panni del privilegio e dell’arroganza, garantiti da ragioni di forza o di poteri acquisiti storicamente; altre ancora, non esita a usare le parole e le armi dell’odio. Ignorare che c’è un continuum tra “discriminazioni” di vario genere e violenza esplicita, che l’aggressione subita per strada ha il suo epicentro nelle case, nei legami famigliari e amorosi, far finta che il patriarcato sia solo “la riviviscenza fondamentalista” dell’ “incontro disperato dell’Islam con la modernità” (Il Foglio, 21.8.06), è ancora una volta il tentativo, debole e sempre più scoperto, di non assumersi la responsabilità di una storia  -nostra, quanto di altre civiltà-, che si porta dietro, primo tra i suoi “mali”, l’oppressione di un sesso da parte dell’altro.

Nel momento in cui si sposta il rapporto tra uomo e donna  -che come tale risente di una rimozione millenaria e di radici ancora inconsce- sul terreno, oggi sentito con più urgenza e inquietudine, della mescolanza di popoli e culture, è chiaro che si finisce ancora una volta per affossarlo, per inalberare da una parte la propria “innocenza” di occidentali democratici, liberi, rispettosi almeno formalmente delle donne, e, dall’altra, la “barbarie” di costumi stranieri, tribali e minacciosi per il nostro quieto vivere.

In questa polarizzazione, a cui ci hanno ormai abituato, sulla scena mondiale, le guerre “umanitarie”, la democrazia esportata con i bombardamenti, la crociata del Bene contro il Male, sparisce ogni possibilità di interrogare se stessi, prima ancora che gli altri, di chiederci se alcuni dei “nostri valori” non celino altrettanto fondamentalismo, se l’ “altro”, il “diverso”, non sia lo schermo facile su cui proiettare aspetti disturbanti della nostra identità. Che cosa significa, altrimenti, farsi scudo della nostra Costituzione, delle nostre leggi, e tacere sul fatto che, dai sommi vertici istituzionali fino al più diseredato dei cittadini, pochi di quei principi vengono rispettati?

Diritti, libertà, principi etici, a cui giustamente si riconosce una valenza universale, convivono con una cultura e una materiale, solidissima tradizione di rapporti di forza  -nella famiglia, nel lavoro, nelle istituzioni sociali e politiche-, su cui si preferisce chiudere gli occhi. Se la nostra “identità scricchiola”, nell’incontro con altre comunità, è perché si scopre essa stessa più simile di quanto immaginasse, nei comportamenti se non nei principi, ai “forestieri” che la invadono, incline allo stesso modo a enfatizzare le proprie differenze, ad alzare sbarramenti, a stigmatizzare nell’altro ciò che passa la proprio interno nella generale indifferenza. E’ il caso degli stupri e degli omicidi di donne, cronaca quotidiana che passa quasi sempre inosservata nelle notizie “in breve”, e che diventa questione “politica”, istituzionale, solo quando si può attribuirla all’invasione minacciosa dell’Islam.

E’ per questo che anche l’affannosa ricerca di misure di sicurezza lasciano perplessi. Se può far piacere avere una città più vivibile per uomini e donne, grazie a una migliore illuminazione e a una maggiore disponibilità di taxi e bus nelle ore notturne, resta comunque il sospetto che l’  “emergenza”, riguardo agli stupri, quanto meno per la città di Milano, venga usata prevalentemente per sgombrare campi nomadi, ripulire l’ingresso della stazione dagli immigrati che vi soggiornano, togliere dalla vista dei cittadini la miseria e sostituirla con le lucenti vetrine dell’ennesimo ipermercato.

Fa uno strano effetto leggere Magdi Allam (Corriere della sera, 1.9.06) che parla dell’ “annullamento del corpo” e dell’ “umiliazione della personalità femminile” a proposito della donna egiziana che si è presentata col burqa a ricevere, insieme alla famiglia, la cittadinanza dalla sindaca di Valmozzola (Parma). Quante “barriere”, molto più pesanti di un vestito, continuano a separare le donne dalla società?

Quando mai ci si è chiesti se a “discriminare” le donne non sia proprio il “valore” che si continua ipocritamente ad attribuire alla loro disponibilità a sacrificarsi per gli altri, al dono di sé di cui sono prodighe, nella cura di bambini, malati, anziani? Chi si chiede se le case non  siano ancora per la vita pubblica quell’ “altrove” che ne garantisce la sopravvivenza,  “liberandola” da tante responsabilità che la costringerebbero a profondi cambiamenti, quel luogo appartato che illude le donne di una loro domestica “potenza”, espropriandole di fatto di ogni potere decisionale che conta?

Il femminismo è “silenzioso” solo per chi vorrebbe tenerlo sottomesso, a portata di mano, pronto a manifestare su ordinazione, a indignarsi a comando, a esecrare il “mostro” di turno. Non è l’attesa di una “rivoluzione copernicana” che costringe a prendere tempo per la riflessione. La rivoluzione è già cominciata nel momento in cui alcune donne hanno preso parola per dire della loro libertà e della loro complicità, della storia che le ha volute “straniere” nella città dell’uomo e “intime” nella sua famiglia. Come ha scritto Angela Azzaro su Liberazione, da questo cambiamento profondo non si torna indietro, per presentarsi al mondo ancora una volta come “vittime” bisognose di “tutela”.

Se si vuole affrontare il problema della violenza contro le donne, non si può farlo solo sull’onda dell’allarmismo e di quella che si vorrebbe presentare come “emergenza” di stupri e omicidi. E’ vero che per il solo fatto di parlarne, accanto a un prevedibile effetto contagio, si apre anche una maggiore possibilità che la violenza venga denunciata, ma non è indifferente il modo in cui se ne parla e il modo di affrontare una questione che definire “attuale” è davvero ridicolo.

Bisogna dire a chiare lettere che l’accanimento contro i corpi delle donne non è un problema che riguarda solo la legge, o l’ordine pubblico, ma una cultura segnata dal potere che la comunità storica degli uomini si è arrogata, dove convivono valore e svalorizzazione del femminile, amore e odio, civiltà e schiavitù. Senza questa esplicita “presa di coscienza” e di responsabilità, non c’è protezione che conti, né sistemi di monitoraggio e pronto soccorso che, come ha scritto giustamente Stefano Bertazzaghi su La Repubblica (31.8.06) tranquillizzano solo l’ansia di chi ci governa.

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 5 settembre 2006 con il titolo L’Occidente e i suoi “valori” sospetti