Feti e geni: idoli e feticci del nostro tempo
di Lea Melandri
Il mio incontro con
Barbara Duden al
Festival Torino Spiritualità avviene nel momento in cui
si torna a parlare di “feti” e di “geni”, idoli, oggetti ‘sacri’ del
nostro tempo, che rischiano di produrre un mutamento epocale nel modo di
vivere e di raccontare il corpo.
E’ di questi giorni la notizia,
proveniente dagli Stati Uniti, della donna che, avendo saputo da un test
genetico di avere la probabilità al 50% di ammalarsi di cancro, ha deciso
per una mutilazione preventiva.
In Italia è appena uscita sul settimanale
“Grazia” l’intervista a Livia Turco, che si dice favorevole all’adottabilità
degli embrioni, in quanto convinta del loro status di essere umani. In
Lombardia sono tutt’altro che risolte le lugubri conseguenze
dell’approvazione del regolamento sulla sepoltura dei feti.
Barbara Duden,
‘storica del corpo’, come ama definirsi, è sicuramente la studiosa che ha
dato uno dei più interessanti contributi di analisi critica ai temi oggi
al centro del dibattito pubblico in diversi Paesi dell’Occidente: la
nascita -con riferimento all’aborto, alla procreazione medicalmente
assistita-, la malattia -controlli, prevenzioni, nuove tecnologie
mediche-, e la morte.
Su tutta questa materia, che ha a che fare con
esperienze umane fondamentali, intervengono sempre più pesantemente i
massimi poteri della sfera pubblica -Stato, Chiesa, tribunali, scienza,
media-, con la conseguente messa in ombra dei soggetti direttamente
interessati, della libertà che dovrebbe essere loro riconosciuta di
disporre del loro corpo, ma anche di raccontarlo.
E’ di questa
‘espropriazione’ che parlano i libri di Duden. Il desiderio dell’uomo di
strappare al corpo femminile il segreto della procreazione c’è sempre
stato, ma oggi questa contesa per il potere riproduttivo, per effetto
delle biotecnologie, rischia di dar corpo all’immaginario, nel momento in
cui la fecondazione si trasferisce nei laboratori scientifici e l’intero
processo passa sotto l’assillante controllo di medici e specialisti.
Col
mutamento prodotto da tecniche sempre più sofisticate di “visualizzazione”
–ecografie, test genetici, diagnosi prenatale-, il corpo della donna è
diventato un “luogo pubblico” e il nascituro ha preso “vita autonoma”,
tanto da poter essere considerato “persona”, “soggetto giuridico fin dal
concepimento”.
Si può dire che assistiamo a un duplice cambiamento: si
‘biologizza’ il cittadino, il diritto, mentre si ‘sacralizza’ un fatto
scientifico.
Le persone diventano una sommatoria di organi, le storie
particolari di ogni individuo si appiattiscono su un codice genetico,
usato come un oroscopo, il bambino diventa un feto, un embrione, la donna
incinta un ‘ambiente uterino’; per un altro verso, si fa strada la
tendenza a trasformare il biologico in qualcosa di sacro, di trascendente,
di ultraterreno.
Barbara Duden ha un
modo del tutto originale di portare avanti la sua ricerca. Del corpo -lei
dice- si può fare la storia con due procedimenti diversi: guardandola ‘da
fuori’, “sulla carne”, oppure tentando di fare la storia “del sentire e
del vedere all’interno”, dell’esperienza che si fa “nell’oscurità sotto la
pelle”, la storia del “tatto” e non solo della vista, come è quella
tradizionale.
Ciò significa occuparsi di “cose invisibili”, tra cui va
collocato anche il nascituro. Le fonti in questo caso sono scarse, le
donne hanno detto poco e ancora meno hanno scritto della loro esperienza
del corpo.
Diventano quindi preziose le testimonianze raccolte dal dottor Storch nel suo laboratorio di Eisenach, tra il 1719 e il 1741, i 1600 casi
di donne che gli confidarono le loro “malattie”. Di questa “escursione” nel
passato Barbara dice di aver avuto bisogno per sapere che c’è stato un
modo diverso delle donne di vivere il corpo, e di conseguenza poter
prendere distanza da quei “feticci” - i geni, il feto, “una vita”- che
stanno facendo “perdere la testa alle donne”.
Quella a cui assistiamo oggi
è una “ nuova paradossale socializzazione della
donna… il vissuto diventa un fatto privato e il fatto scientifico
dell’annidamento dell’ovulo fecondato assume
una funzione sociale.”
In altre parole, ci
sarebbe stato un capovolgimento nella posizione della donna, per cui, quel
“potere” o quella “funzione sociale”, quella competenza sul proprio corpo
che le è stata a lungo riconosciuta, passa oggi a un “fatto scientifico”.
Fino alle soglie della modernità le donne erano “davvero incinte” quando
il feto nel loro grembo cominciava a muoversi. Nessun altro, oltre a loro,
poteva dare testimonianza di questa esperienza sensoriale.
Su questo punto
ho fatto, come già altre volte un’osservazione un po’ provocatoria, che Duden tuttavia non mi è sembrato abbia raccolto. La capacità generativa
delle donne è stata in effetti invidiata, esaltata immaginativamente dagli
uomini, ma di fatto è stata sempre sotto il segno dell’insignificanza o
della violenza -stupri, gravidanze subite, morte per parto.
Si può dire
che la maternità sia stata per le donne, oltre che la principale causa di
esclusione dalla sfera pubblica, anche l’impedimento maggiore alla
conoscenza della propria sessualità. La riappropriazione del corpo, la
legittimazione di un proprio piacere sessuale svincolato dalla
procreazione avviene solo in tempi vicini a noi, col femminismo degli anni
’70. Penso che il corpo femminile sia sempre stato una “terra d’altri”, un
luogo a cui l’uomo ha dato una rappresentazione a partire dalle sue paure
e dai suoi desideri
Quello che avviene
oggi in modo vistoso, macroscopico – il fatto che le donne, sottoposte
alla visualizzazione di processi che avvengono in loro, interiorizzano
quello sguardo esterno- si colloca, per certi aspetti, in una linea di
continuità col passato.
Le donne si sono sempre ‘viste’ attraverso
l’occhio dell’altro. Scegliendo di occuparsi della gravidanza e di
parlarne attraverso le testimonianze di donne lontane nel tempo, le cui
parole, come dice Duden, sono dense di “umori corporei”, si finisce per
assolutizzare una ‘specificità’ di genere, nel modo di vivere il corpo,
che è il tatto, unico senso capace di far emergere una “zona oscura” del
femminile, di cui le donne emancipate si vergognano.
Viene ricalcata così
la ‘differenza’ tradizionalmente attribuita alle donne. E’ vero che,
chiuse nella case, escluse dalla cultura e dalla possibilità di muoversi
nel mondo, le donne non hanno avuto modo di esprimere le loro capacità.
Lo
sguardo, non potendo andare oltre la soglia di casa, e dovendo sempre
pudicamente essere rivolto al proprio interno, si è fatto ‘visionario’, si
è addestrato al fantasticare, e non poteva non investire di queste
fantasie anche il corpo.
Il modo di raccontare la gravidanza e il parto
sono cambiati molto dal momento in cui le donne hanno preso coscienza di
sé, di ciò che ha significato il ruolo di madri, la cancellazione della
loro sessualità, della loro creatività non biologica.
Nelle scritture
di esperienza di donne vicine a noi nel tempo, non c’è tanto
la “buona e quieta sensibilità femminile piena di speranza”, che Duden ha
visto nelle donne del passato, quanto il coraggio di dire anche “l’orrore
del parto”, la contraddittorietà dei sentimenti che accompagnano il
sentirsi “due in uno”, l’altalena tra senso di pienezza e di svuotamento,
tra onnipotenza e resa a una legge naturale.
Io sono d’accordo
con Barbara Duden che l’invasività del pensiero tecnologico e della
mentalità genetica sta producendo una mutazione profonda, in cui si
esprimono fantasie antiche quanto la storia umana: l’ossessione
dell’immortalità, il desiderio onnipotente dell’uomo di controllare,
attraverso il corpo femminile, il principio e la fine.
Questo dovrebbe
spingerci a interrogare la scienza e i saperi su cui si è costruita la
civiltà dell’uomo, per la distruttività che si portano dentro, senza per
questo ricalcare dualismi noti, tra natura e storia.
C’è, nella denuncia
di una progressiva “decorporeizzazione” una verità indubbia, che tuttavia
rischia di perdere la sua forza persuasiva nel momento in cui non vede più
la complessità dell’esperienza reale. Nel momento in cui entrano nel
quotidiano parole e concetti che escono dai laboratori scientifici
rischiamo effettivamente di “perdere la testa”, di riempirla di “feticci”,
di viverci come vite perennemente “a rischio”.
Ma non si può pensare che
siano andati completamente in ombra quei barlumi di sapere e di
cambiamento, relativi al corpo e alla sessualità, che sono avvenuti nella
coscienza delle donne a partire dal femminismo degli anni 70. C’è stata
allora, nelle pratiche dell’autocoscienza, dell’inconscio, nei
gruppi
sulla medicina e la salute delle donne, i consultori, ecc., il tentativo
più radicale di sottrarre le vite reali, i vissuti, le storie personali
delle donne al confinamento nel ‘privato’ -una ‘socializzazione’
che partiva dal riconoscimento della ‘politicità’ della sfera personale-,
lo sforzo di sottrarre il corpo alla medicalizzazione, e, più in generale,
alla oggettivazione che ne è stata fatta: oggetto sessuale, oggetto di
studio, strumento della riproduzione, ecc.
Quello che ci ha permesso
allora di dare avvio a una diversa “storia del corpo” è stata la
dimensione collettiva della riflessione e delle pratiche, il potersi
raccontare in presenza di altre, contando sul loro ascolto e la loro
attenzione, solidale e critica al medesimo tempo.
Oggi sembra che la
maggiore difficoltà stia proprio nel ritrovare questo ‘pensare insieme’,
per cui ogni donna si trova sola di fronte all’invasività crescente del
discorso pubblico su corpo, sessualità, aborto, un discorso che ormai
dilaga su tutte quelle vicende essenziali della vita, che hanno il corpo
come parte in causa. A tener conto della ridottissima presenza maschile
all’incontro di Torino, si direbbe che gli uomini non se ne sono ancora
accorti.
Questo articolo è
uscito su
Liberazione
del 25 settembre 2007
home |