Un po' di storia

Liliana Moro


Il gruppo nasce nel 2004 con il titolo “Pensare e scrivere il rapporto tra sé e mondo” sottotitolo “Come nasce il desiderio di politica.” Sono andata a documentarmi sul sito, per le date. Era proprio il 2004/05. Io ho cominciato a seguirlo così finché si è arrivate alla corposa pubblicazione Tra sé e mondo. Come nasce il desiderio di politica (a cura di Nicoletta Buonapace, Gabriella Buora, Liliana Moro) che è uscita nel febbraio 2007.
Poi, come recita ancora il sito, Il gruppo ha cessato le sue attività, evolvendo nel Gruppo Politica e nel Gruppo Scrittura”

Nel periodo 2008/09 abbiamo lavorato sul libro “La perdita” producendo delle nostre scritture su questa lettura, raccolte nel quaderno “Attorno a La perditaDovevamo elaborare il lutto perché Lea non conduceva più il gruppo, bloccata dal suo intervento all'anca e anche perché seguiva il Gruppo Politica e noi abbiamo preferito continuare con la Scrittura da sole.

Dall'autunno 2009 abbiamo cominciato a lavorare sulla cura, arrivando a pubblicare Pensare la cura Curare il pensiero per sfociare poi nel Convegno del febbraio 2012.

Dall'autunno 2011 abbiamo cominciato a lavorare sul conflitto. Fin qui i dati registrati nel sito.

In tutto questo tempo la composizione del gruppo, naturalmente, ha visto molti cambiamenti. Arrivi e partenze.

Questa ricostruzione e una conversazione con Sonia mi hanno reso chiaro quanto siamo andate modificando il nostro stile di lavoro. Siamo partite dalla lettura, sottolineatura e poi scrittura dai frammenti, sui frammenti che ci avevano risuonato dentro, per usare la scrittura come strumento di demolizione del senso comune, per terremotare i pensieri consolidati.
Ma poi ci siamo pian piano allontanate da questa pratica e non a caso l'interesse si è spostato sul tema, più che sui testi. Spesso siamo andate a ruota libera con una modalità che probabilmente aveva più dell'autocoscienza che del lavoro sulla scrittura. Anche se la passione per lo scrivere è certo l'elemento forte che ci accomuna. Sempre più raramente abbiamo “lavorato” sui testi delle altre e anche su quelli esterni, di autrici o autori che abbiamo portato come strumenti, abbiamo scritto sempre più in generale, non scavando nelle parole.

Non sto battendomi il petto né intendo diffondere sensi di colpa, tutt'altro, voglio cercare di capire; perché credo che questo non sia avvenuto a caso, ma per il fatto che la scrittura d'esperienza è una pratica difficile, che non si può improvvisare e non viene spontaneamente. Credo che siamo a un punto di svolta, dobbiamo decidere se vogliamo un gruppo di “autocoscienza” o qualcosa di simile o se vogliamo praticare la “scrittura d'esperienza”, con quanto ne consegue in questo momento, che è chiedere a Lea di condurlo, cioè di avere un ruolo diverso dalle altre, e riconoscere concretamente il suo lavoro.

 

Ora voglio provare a riprendere la pratica degli inizi rileggendo i frammenti sull'amore dove isolo queste frasi:

“Sono allora gli occhi d'amore di un uomo, sono il suo desiderio che ti fanno placare quella paura, il timore di quell'esterno a volte tanto minaccioso”

Lei (la madre) non è un esterno, di lei non so dire se sono io, se lei è ancora me o io sono ancora lei” (Agnese Seranis)

L'esperienza dell'abbandono-tradimento materno mette la donna nella condizione di dover cercare costrittivamente nell'uomo la prova della sua esistenza e del suo valore”(Lea)

Mi riconosco, riconosco tanta della mia storia, tanto del mio passato. Un ribollire, un tremore che ora mi sembrano un po' lontani. La violenza della forza che mi faceva guardare con ansia di riconoscimento negli occhi di “Lui” è molto scemata e, anzi, direi azzerata.

Di certo so che per molti anni ho cercato di svincolarmi dalle spire di questi due -si possono chiamare amori? - queste passioni, fuggendo dall'una, la madre, verso l'uomo e dall'altro, l'uomo, tornando alla madre. Non saprei proprio dire quale fosse più soffocante o quale più appagante. Il movimento, però mi dava un certo respiro, mi offriva una via di fuga dal peso dell'amore. Ebbene sì, sembra assurdo, ma penso all'amore come a una pesantezza, un vincolo invalidante, una forza incoercibile capace di annullare ogni mia volontà, ogni equilibrio e farmi perdere la dignità di me stessa. Una forza capace di impedire quella padronanza di me e della situazione che sono obiettivi così difficili da raggiungere, anche senza questa complicazione.

Altro che i campi di grano e i prati in fiore, le corse nel vento e in riva al mare! Queste sono le immagini dell'innamoramento che non solo da ragazzina ma ancora oggi mi vengono in mente. Ma se penso alla mia esperienza l'unico amore che si è avvicinato a queste immagini di libertà è quello per mia figlia. Forse perché il mio bisogno di lei è meno forte o almeno lei sa esplicitare anche il suo bisogno di me e questo ci mette di più su un piano di parità.

“E' solo con fatica che la donna riesce a far proprio il lavoro dell'uomo” (Lea)

Questo mi risuona, invece, come lontano o meglio: in questa dinamica degli affetti, il lavoro per me ha funzionato come gradito e rassicurante ambito d'azione libera, di razionalità e affermazione d'indipendenza, a prescindere dalle sue condizioni. (A volte davvero disumane: facevo l'insegnante.) In questo discorso considero il lavoro non in sé ma come altra forza, che veniva a inserirsi in quelle dei vincoli amorosi come elemento che mi permettesse di dire dei no, di porre degli argini, senza assumermi direttamente la responsabilità di queste scelte.

E soprattutto senza riconoscere ai miei stessi occhi la forza del mio desiderio di annegamento, di dissolvimento in una relazione d'amore. Perché se una vede che nasce da dentro ciò che rende così dispotico l'amore, forse riesce anche a ridimensionarlo un po'. Non so. So che ora mi sento molto più padrona di me stessa e capace di respirare anche senza ricevere esistenza dallo sguardo altrui.
Vecchiaia? Fine del desiderio erotico? Strada percorsa nel femminismo? Gratificazioni intellettuali venute dal gruppo?

(9.6.2014)

 

 

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