Anni Settanta un'eredità a rischio

Discutiamone, ma per dire che ci mancano

di Maddalena Gasparini


Elisabetta Sirani


Non so quale femminismo abbia frequentato Anna Bravo, nella città dove il terrorismo ha aggredito - fra gli altri - chi negli anni 70 aiutava le donne a sottrarsi alla doppia violenza dell'aborto e della sua clandestinità. Nella rilettura storica del rapporto fra le donne e la violenza, in uscita su Genesis e anticipata da Simonetta Fiori su Repubblica, violenza terrorista e aborto appaiono in contiguità, per chi li agisce non meno che per chi li subisce. E pazienza se «le vittime erano due, la donna e anche il feto», la cosa diventa intollerabile se la donna sceglieva «per rifiuto della maternità».

Ero studentessa di medicina all'epoca e sicuramente non posseggo le competenze e gli strumenti di una storica. Ma ho buona memoria della pratica del movimento femminista degli anni 70, fatta di gruppi di autocoscienza, di manifestazioni di piazza, di esperienze concrete. Penso ai consultori autogestiti di Torino, Milano, Roma, Padova; all'assistenza alle donne che si recavano all'estero per abortire senza rischiare; alle discussioni sui contraccettivi.

Della complessa elaborazione che il movimento femminista produsse sull'esperienza dell'aborto era parte integrante il riconoscimento della sofferenza e dell'ambiguità di una scelta che interrompeva una gravidanza non voluta, l'indicibilità di quello stato in cui si è due e una. All'epoca la contraccezione era proibita, il preservativo non aveva conosciuto la fama cui l'avrebbe portato l'Aids e non sempre una gravidanza indesiderata era uno scherzo dell'inconscio: era urgente sottrarre la sessualità all'obbligo riproduttivo e porre le premesse di quella che si sarebbe chiamata "maternità responsabile". E tuttavia, pur nell'entusiasmo giovanile e nella convinzione di radicali cambiamenti del rapporto fra gli uomini e le donne, l'interruzione volontaria di gravidanza rappresentava una dolorosa "ultima" scelta, libera anche quando favorita da difficoltà sociali o economiche.

In un paese dove la responsabilità riproduttiva viene vagliata con gli strumenti della legge, della scienza, della religione piuttosto che essere lasciata alle donne, come documenta la recente approvazione della legge 40 sulla procreazione assistita, non giova riproporre la favola della donna vittima (della violenza come del desiderio), evocare ambiguamente la "vita" del feto, senza permettere al pensiero di circoscrivere le emozioni che inevitabilmente suscitano questi temi.

Negli anni 70 cercavamo di tenere a bada la fertilità; la maternità poteva essere rinviata, e anche sublimata per le vie dell'emancipazione. Dopo tanto "materno simbolico" le tecnologie riproduttive ci hanno costretto a ripensare all'esperienza reale della gravidanza, dell'accudimento, della maternità, dei legami parentali.

Il mancato riconoscimento politico dell'esistenza di un pensiero femminile sulla procreazione assistita (si veda per tutti il bel libro collettivo Un'appropriazione indebita, ed. Baldini Castoldi Dalai) ha prodotto una legge che mette sullo stesso piano "il concepito" e le persone che ne hanno permesso la formazione; mentre la riflessione sull'aborto degli anni 70 ha imposto una legge (la 194) che pur coi suoi limiti, è stata difesa da laiche e cattoliche dal tentativo di abrogazione e usata in modo sostanzialmente liberale malgrado la subordinazione alla decisione del medico e del giudice tutelare per le minori.

L'esito politico del femminismo degli anni 70 è insidiato quotidianamente da cambiamenti striscianti (come la progressiva riduzione degli ospedali dove si può abortire), da leggi illiberali (come la legge 40), dall'assenza di riconoscimento pubblico dei cambiamenti privati. Se l'eredità di quegli anni merita una lettura critica con gli occhi del presente è per dirne le mancanze all'oggi, non per ridurre la straordinaria ricchezza di allora.
 


Questo articolo è apparso su Liberazione del 4 febbraio 2005