Donatella Bassanesi – Le parole di Simone Weil

di Barbara Mapelli


Simone Weil

L’ho già detto e scritto a proposito delle lezioni di Donatella su Arendt, e di nuovo mi ripeto su alcune qualità della sua scrittura e dell’organizzazione dei suoi libri che apprezzo in particolare.
La biografia, sempre presente in apertura; il procedere del testo che non è lineare, ma intreccia molte scritture: l’autrice, Donatella, commenti di altri autori/trici; il seguire tracce apparentemente (o non apparentemente?) erranti, che portano chi legge qua e poi là, ma poi lo/la riconducono ad alcuni luoghi di partenza. Certamente una scrittura così costruita e scelta non è facile, ma, come dicevo, possiede qualità e offre possibilità al lettore, alla lettrice.
La biografia, la storia di Simone Weil, come quella di qualunque autore/trice è necessaria per comprendere pensiero e scrittura.
Della sua vita, secondo quanto brevemente riporta Donatella, colpisce il rigore, la negazione del corpo, della femminilità, le scelte estreme, certe sicurezze di affermazione che intimidiscono (v. incontro con Simone de Beauvoir). All’inizio c’è una madre che la preferirebbe maschio, lei sta al gioco e il gioco diviene serio: il corpo è coperto, dissimulato, reso informe, la femminilità negata, anche come pensiero ‘non sono femminista’. Colpisce chi la vede per il suo (voler) essere brutta, cui sfuggono gli occhi, meravigliosi e miopi, con cui si protende verso ogni cosa – e parlerò poi dell’attenzione, della virtù che ha alla base il guardare veramente e parte da questi occhi che hanno intensità, avidità indagatrice.
La sua vita è la vita di chi sembra non temere nulla, la malattia, la stanchezza, il freddo e la fame, che vengono cercati, vissuti quasi con avidità, la morte, che colpisce presto, inevitabilmente e parlerò poi del coraggio, la virtù che l’avvicina, almeno nel mio pensiero e nell’accostamento di Donatella, ad Arendt.

Non amo, non ho mai amato Simone Weil, forse mi ha fatto paura, come ha fatto a molti/e che l’hanno conosciuta. Mi raccontavano che Maria Zambrano, la grande filosofa spagnola avesse a lungo cercato un appuntamento con la Weil, quando lo ottenne, si preparò come la signora elegante che era, con cappellino e rossetto sulle labbra. Avvicinandosi non vista a Simone la osservò, nel suo vestire informe, nella trascuratezza voluta e…si intimidì, se ne andò e l’appuntamento non ebbe mai luogo.
Tornando a me, ho letto molto di Simone Weil e l’ho spesso anche dimenticata e quindi mi è riuscito più facile farmi condurre da Donatella, sono stata più docile, non avevo una ‘mia’ Simone da difendere o da seguire ribellandomi alle tracce della mia guida.  
E proprio a proposito di traccia mi sono soffermata a rileggere quanto scrive Donatella, poiché mi ci sono ritrovata per il mio modo di procedere, nella lettura, ma non solo. “La traccia spezza l’uniformità, è rottura della stessa totalità, è frammento e produce frammenti, è una crisi, è-nonè-debolezza. Nell’orizzontalità del terreno dei fatti mette in movimento, sposta, trae dal ri-tratto delle cose, le espone. Fa e-vidente (e-vedente) la terra e le sue strade non precise. Nel linguaggio sottende domande.

Il desiderio di traccia non ha certezze, sta tra domanda e domanda, tra messaggio lasciato e messaggio trovato (…) rivede il testo come frammento, come implicito della domanda, la domanda che richiama un’altra domanda, l’autonomia del significante”. (pag.18)
E’ una lunga citazione di Donatella, non immediatamente comprensibile – la sua è una scrittura ‘difficile’, o come preferisco dire io suggestiva o evocativa – ma non importa capire tutto, idee forti e chiare, ma lasciarsi anche andare, comprendere quello che la nostra mente, da sola filtra e lascia passare, fidandosi, della mente appunto, che lavori per noi e ci offra quello che vogliamo, quello che ci serve. Ma poi rileggere, confrontare, insomma un po’ di rigore imporlo alla mente che segue la traccia e inizia a porre/porsi domande, come modo di procedere nella lettura del testo che si affianca alla propria esperienza, ai desideri di conoscenza, di approfondimento e comprensione che l’accompagnano.
L’autonomia del significante mi legittima e restituisce la libertà di movimento nel testo, seppure con il rigore che mi auto impongo e con il rispetto per la presenza della filosofa, della sua commentatrice, che sono comunque le segnavia della mia traccia.

“La parola, scrive ancora Donatella, se rivolta all’altro si produce sempre come una certa violenza”, è vero, ma noi donne abbiamo imparato – o almeno dovremmo impararlo – che è la parola-logos che produce violenza, la parola assertiva e definitoria. Se la parola si scambia tra noi e si accosta alla nostra esperienza, la si riconosce come prodotta dalla nostra storia, biografia, e per ciò preziosamente unica e parziale, il logos diviene mythos, la parola che racconta più che definire, e mantiene dunque il rigore del suo riconoscersi punto di vista, parola situata, e la fascinazione di raccontare anche, implicitamente o meno, di una vita.
Sempre mi avvicino a un testo come a un racconto e così mi sento autorizzata ad intrecciarvi il mio di racconto, nell’illusione-pretesa che insieme si arricchiscano.
Anche perché il testo è una scrittura, che ”apre uno spazio tra sé e sé” e “mostra un altro che è insanabilmente diverso” (pag.19).
La scrittura è il nostro doppio, benefico, che ci racconta di noi diversamente, siamo noi e siamo altro, chi ha esperienza di scrittura conosce bene questo sdoppiamento, che consente, come scrive Donatella, “attraverso la differenza da sé di mettere in atto la differenza come passaggio necessario alla conoscenza” (20).
Qui, in questo momento in cui io riprendo quanto ho scritto, è incredibilmente ricco l’incontro: vi è il testo in cui Donatella incrocia la sua scrittura con quella Weil e suoi commentatori/trici e vi è la mia che in qualche modo vi si infila dentro. Agiscono i nostri doppi scrittura in questi appuntamenti plurimi di pensieri diversi e ci fanno conoscere, pensiero e intenzioni, emozioni, dell’altra e dell’altra che siamo noi, io che cambio e mi conosco, mentre leggo Donatella-Weil.
“La scrittura, continua Donatella, porta a una certa conoscenza della cosa procedendo per somiglianza, è spostamento dal dominio dello stesso (…) allude non spiega non definisce” (pag.21).
Ritrovo qui tutto quanto ho detto prima, le tracce che seguo, la pluralità della conoscenza nelle diverse esperienze e alterità che si incontrano e una parola-scrittura che allude, non spiega, non definisce: anzichè logos è dunque mythos, la parola che racconta, come la Pizia suggerisce, lascia tracce e avvia o arricchisce il racconto-parola-scrittura di chi legge e il percorso, fatto di plurime tracce, prosegue…
Scelgo due parole, tra quelle di Simone che Donatella ha a sua volta scelto, due parole-virtù in cui accosto parole e scritture, tra la filosofa, la curatrice del testo e io stessa.

Attenzione
“E’ intelligenza del guardare, che sposta il punto di vista, è angolatura per comprendere un fatto, un tempo una storia (…) è un certo modo di essere, un approccio che si oppone alla dis-trazione, alla disattenzione”, scrive Donatella (pag.22) e nella pagine seguente cita Simone Weil, “Noi per mezzo dell’attenzione intellettuale certo non creiamo, non produciamo nessuna cosa, ma tuttavia nella nostra sfera suscitiamo in qualche modo realtà (…) solo l’intelligenza attenta ha la virtù di operare le connessioni (…) le quali costituiscono la realtà stessa del mondo, non hanno esse stesse realtà se non come oggetto dell’attenzione intellettuale in atto” (pag.23). E annota ancora Donatella, intrecciando le sue parole con quelle della filosofa, “Attenti sono i pochissimi spiriti a cui è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono” (pag.24).

L’attenzione è il sentimento dell’esistenza

L’attenzione vera consente di vedere, comprendere e accogliere le persone e la realtà, è una virtù che assomma in sé l’esercizio di altre virtù: la fiducia, la capacità della distanza, del ritrarsi che induce all’umiltà, del mettersi in ascolto e in disparte rispetto alla vita altrui, al suo darsi a noi, che possiamo sentire nella sua profondità e interiorità, se pure nei limiti che ci è dato conoscere, attraverso la virtù dell’attenzione. Essa avvicina anche all’amore, poiché offre il senso dell’individualità, dell’unicità della persona, non una serie di caratteristiche e di valori, qualità che si sommano, ma ciò che rende persona, quella persona, unica, irriducibile a ogni altra.
L’attenzione è generativa di quello che Maria Zambrano definiva lo sguardo innamorato di ciò che osserva 1 - per poi tornare a sé nell’elaborazione di nuova conoscenza.
L’attenzione deve avere uno sguardo libero, uno sguardo come quello del bambino, che non è ancora limitato e distorto, perché già orientato e fissato verso una direzione che nega altre possibili prospettive. “L’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto (…) Il pensiero non deve cercare nulla, ma essere pronto a ricevere nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi”2.
L’attenzione non orientata diviene una disposizione  ricettiva, aperta ed accogliente, che si lascia guidare, e scopre, esplora, libera energie e uno sguardo che dilata le possibilità del vivere, cercare e comprendere3 .
E’ una virtù quotidiana, che può essere umile e semplice, ma è, come altre, virtù ardua, richiede lo spogliarsi, il più possibile, degli ostacoli, difese interne, timori e paure, per predisporsi all’accoglienza, allo sguardo libero e all’ascolto vero. E’ un ritorno, un avvicinamento alla condizione del bambino, al suo essere con gli occhi spalancati, come dovrebbe il filosofo, o, più semplicemente, chi esercita fiducia e attenzione, senza un orientamento già definito, che limita le possibilità di relazione, cognizione e ritorno di coscienza a sé.
Vi è un’opera di Simone Weil, non ripresa in questo testo di Donatella – ma è senz’alto opera minore – in cui la virtù dell’attenzione appare in azione. E’ un’opera teatrale, Venezia salva, in cui l’autrice racconta di una congiura per conquistare Venezia e di un congiurato che, guardata veramente Venezia, ne ha pietà e denuncia la congiura.
“La ricopre quest’ultimo sole con i suoi raggi
E se sapesse certo si fermerebbe per la pietà.
Ma né il sole ha pietà di lei, sventurata, né io.
M’è dato dunque d’essere come il sole insensibile,
Io che vedo con i miei occhi quale città dovrà perire?”4.
Jaffier, il protagonista, prova per la prima volta ad esercitare la virtù dell’attenzione vera, che genera in lui pietà e il sentimento pietoso la scelta del tradimento: si tratta di quel passaggio, difficile,  di assunzione di responsabilità personale, di cui parla anche Maria Zambrano, e l’attenzione viene richiamata anche da lei come virtù dell’etica personale, delle sue scelte.
Il finale dell’opera di Simone Weil è comunque tragico: Venezia è salva, ma si scatena la terribile vendetta dei suoi governatori, che risparmiano solo in parte Jaffier, poiché un traditore non è mai accettabile da nessuna parte in campo. Gli viene salvata la vita, che lui però sceglie di sacrificare in un ultimo scontro per Venezia..
L’attenzione, virtù civile e personale, offre a Jaffier il senso di sé oltre che della realtà, ciò che gli altri, i congiurati, non hanno potuto attingere e, osserva Cristina Campo nella prefazione, “ un uomo senza realtà, ci vuole poco a farne un oggetto”5. L’attenzione pura e vera salva, oltre che Venezia, da quella perdita di realtà, di cognizione di sé nella realtà, che è il senso della tragicità, ‘di quel grande oratorio tragico’ che è l’opera di Simone Weil. Forse tutta la sua opera?

Coraggio
L’azione coraggiosa provoca una mutazione nello stato delle cose, incarna in un certo senso una metamorfosi, è sospensione dei normali tempi di espressione prevaricazione repressione.
Per Weil, non reagendo istintivamente al male, trasformando il male in sofferenza non passiva ma attiva si compie un’azione in senso contrario, abbiamo un’azione coraggiosa – che è esporre il proprio cuore, mettere a rischio la propria vita a ragione della violenza subita, per riscattarla ma senza vendetta, su un altro piano che è della collettività, si rivolge ai molti, ha per obiettivo il riscatto dei molti (…) Avere il coraggio di compiere il salto che è sempre l’ignoto, rischiando, perché non tutto è calcolabile, latente è l’imprevisto, è in agguato il trapasso, compare come illuminazione di un istante, pone in quella tensione che rende possibile il salto verso l’imprevisto che è l’intuizione dell’ignoto” (pag.50).
La virtù del coraggio, nelle parole di Weil e di Donatella che commenta, è non solo reazione al male, temerarietà, assunzione del rischio: è esposizione e intuizione di ciò che non è noto e che sarebbe impossibile comprendere nella passività. Simone agisce il coraggio, continuamente, nella sua vita, come azione individuale, collettiva, politica, la sua è una vita in esposizione e ciò che il coraggio le insegna, lo traspone in parole, appunti, non c’è il tempo spesso (e non c’è nelle giornate e in una biografia troppo breve, resa breve da questa esposizione?) per la frase rifinita, per l’opera compiuta, con inizio e fine.
La virtù del coraggio giunge fino a noi e, inevitabilmente, al pensiero di Hanna Arendt, come qualità, soprattutto, dell’agire libero, di proporsi al mondo per chi si è.
 “Lasciare il proprio riparo e mostrare chi si è, svelando ed esponendo sé stessi”, “volontà di agire e parlare, di inserirsi nel mondo e di iniziare la propria storia”, citazioni di Arendt dalle quali traiamo un’interpretazione di coraggio che si avvicina e si discosta al tempo stesso dalla nozione di Weil, più proiettata verso il coraggio come azione civile e politica. Qui, in Arendt, si afferma come virtù morale, virtù del soggetto in cui “l’affermazione di sé, la decisione di agire, di iniziare qualcosa di nuovo, di essere sé stessi nella forma più autenticamente umana coincidono con l’uscita fuori di sé, fuori del tranquillo riparo del proprio io e del suo contorno di abitudini, di sicurezze, per esporsi, aprirsi al mondo. Virtù di cui solo il singolo può essere protagonista”6.
Si rende possibile, così, il passaggio della virtù degli eroi all’ ‘esperienza quotidiana’ di chi vive nella modernità, in un mondo che pare sfuggire nei suoi contorni, cui non si appartiene e che sembra non appartenerci, rispetto al quale occorre ritrovare il significato del proprio esserci, riconquistare il possesso delle proprie azioni.
Il coraggio – virtù dell’inizio secondo la nota definizione di Jankélévitch7 - diviene per le donne e gli uomini contemporanei una virtù che si genera a partire da sé e si muove poi verso l’apertura al mondo..
Nel percorso di trasformazione del coraggio in virtù del soggetto morale, che muta da risposta eroica alla paura, della morte in particolare, a una ricerca di conoscenza e nuova presenza nel mondo, si possono riconoscere alcune forme, che possiamo definire di ‘virtù femminile’. Il coraggio di difendere la vita, proteggerla, curarla, riconosciuto in qualità e competenze di soggetti femminili, portatrici di esperienze di vita, più che di esposizione – e spesso produzione – di morte.
Una nozione legata maggiormente alla quotidianità, agli atti, attenzioni, comportamenti, anche dimessi, che costruiscono il coraggio come atteggiamento morale di conservazione e rispetto di sé, degli altri, del mondo.
Il coraggio come opera che si tesse nella propria esistenza, ogni volta rinnovando con scelte e azioni il proprio esserci, dall’immediatezza degli atti più materiali in continuità con una ricerca di pensiero e senso, sapienze concrete e saperi della vita.
La nozione stessa della paura, del pericolo cui reagisce l’atto o l’azione coraggiosa muta e viene a coprire tutto il percorso biografico, non singole scelte o atti eroici, bensì l’agire continuo in una vita che si mostra nella sua fragilità e vulnerabilità, in un mondo e un ambiente in cui possono svilupparsi infinite violenze e violazioni.
 Coraggio diviene allora capacità di sviluppare simpatia con persone e cose, concependo il proprio essere nel mondo in una modalità olistica e rigettando la separatezza e l’insensatezza dell’atto solitario, unico e isolato.
Non è tempo, il nostro,  di eroi, ma di coraggio come virtù quotidiana.
Non è il nostro il tempo di Simone Weil, eppure di lei, del suo pensiero e azione, profondamente legati, e questa forma è già la forma del coraggio, ci giunge la duplice forma del coraggio, come atto politico contro il male, del coraggio come attitudine quotidiana, esposizione di sé per quello che si è, esposizione, per ciascuno e ciascuna, della sua modesta, parziale verità. Luoghi nei quali si incontrano il coraggio di Weil e di Arendt, ma anche la possibilità, quotidiana e biografica per noi, per ciascuna donna – sì non è più solo virtù virile – di dismettere la maschera imposta, autoimposta, o le molte maschere, e di essere e agire nel mondo per chi si è, col proprio volto. E’ un’esperienza che tutte conosciamo, perché quando l’abbiamo avuto, questo coraggio, non lo abbiamo dimenticato, è stato l’avvio per altre azioni, altre esposizioni. Le parole delle filosofe, l’offerta che ce ne fanno le commentatrici, ci curano, ci rassicurano nelle nostre azioni, non ci offrono dunque solo conoscenza, ma quel bene che si chiama conoscenza di sé, capacità di amore di sé e dell’altro, la base del coraggio.

Un ringraziamento è dovuto a Donatella, come sempre lo si deve a chi ci muove il pensiero (e con esso il coraggio), a chi ha la capacità, l’intelligenza e il sentimento per creare col proprio testo un luogo da cui apprendere, ri-apprendere a pensare.

 

NOTE

1. Maria Zambrano, Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna, 1998, pag. 34.

2. Simone Weil, Attesa di Dio, Rusconi, Milano, 1999, pp.80-1.

3. Luigina Mortari sviluppa queste qualità dell’attenzione riferendole in particolare alle caratteristiche della filosofia femminile della ricerca, “che privilegia una maniera non-orientata di guardare le cose, nutrita dalla disposizione della non-resistenza”. Luigina Mortari, “Verso un’epistemologia femminile”, in, “Genere e educazione”, Studium educationis, n.2, 2003, Cedam, Padova, pp.365-380.

4. ib., pag.71.

5. ib., pag.14.

6. Ib., pag.23.

7. “Bisogna cominciare dall’inizio. E l’inizio di tutto è il coraggio”, Vladimir Jankélévitch, Traité des Vertus, Flammarion, Paris, 1986, II, vol. I, pag.89.

 

14-04-2009

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