Donne della Repubblica

Maria Nadotti

 

Quel che mi appassiona del femminismo è che non semplifica e non mette davanti a ogni altra cosa il fantasma dell’unità o – ed è la stessa cosa – della divisione. Stare insieme, per le donne come per gli uomini, è difficile e lo è ancor di più quando il mondo in cui abitiamo chiama pace la guerra e progresso le tecnologie che rischiano di sterminarci. Di recente, diciamo dal 2006 in poi, sono nate in Italia alcune sigle che intendono farsi portavoce del “disagio” e dei “disagi” delle donne di casa nostra.
Le chiamo sigle perché – a differenza del variegato movimento delle donne che dagli anni settanta non ha mai smesso di sperimentare, inventare, confliggere, produrre pratiche e saperi attraverso un lavoro di gruppo sotterraneo, spesso intermittente, talora invisibile – hanno scelto di dedicarsi alla creazione di eventi straordinari capaci di intercettare le tante realtà femministe vive e vegete nel nostro paese e di solleticare una tantum la voracità onnivora e smemorata dei nostri media, senza tuttavia mettere limpidamente in discussione gli equilibri di potere e di sistema che caratterizzano la nostra società.

La grande manifestazione del 13 febbraio scorso, che ha richiamato nelle piazze italiane circa un milione di persone, è stata uno di questi eventi. Indetta in nome della dignità delle donne – offese in egual misura, secondo le organizzatrici, dalla compravendita dei corpi di Ruby&Co., dal sultanato berlusconiano stile Gheddafi pre-Odissea-all’alba e dallo sfruttamento mediatico e pubblicitario del corpo muliebre – ha imposto alla vista quello che tanti e tante non volevano proprio vedere: l’esistenza di un movimento destrutturato e molecolare, capace non solo di riaffiorare tutt’a un tratto, ma anche di non prestarsi a eventuali mire egemoniche o leaderistiche. Una refrattarietà, senza dubbio preziosa, che non esiterei a definire ontologica.

Ragioni di furore (non solo di quel sentimento sostanzialmente passivo che è l’indignazione) ce ne sono da vendere per ognuna di noi: dall’abominio berlusconiano a quello di una sinistra gelatinosa, pavida e molto attaccata ai propri micro poteri, dallo scollamento tra la realtà e le sue rappresentazioni alla naturalizzata asimmetria strutturale che nega ai cittadini di sesso femminile non solo parità di diritti e libertà di ruoli, ma lo stesso habeas corpus, salvaguardia assoluta del diritto alla difesa giuridica e fisica del singolo individuo, che dalle nostre parti dovrebbe essere in vigore almeno dai tempi della Magna Charta Libertatum, Anno Domini 1215.

Attorno a tutti questi temi i lavori femministi in corso sono numerosi e, va da sé, contraddittori, spesso di segno e matrice opposti, talora complementari. C’è chi durante questi anni ha scelto la strada dei diritti civili omologando le donne a altre “minoranze” oppresse; chi la via contabile delle quote e della parità o uniformazione ai patti tra uomini; chi un fertile confronto con migranti e seconda, terza, quarta generazione di donne ormai pienamente italiane e tuttavia guardate da molti/e come irrimediabilmente straniere; chi ancora ha preferito sondare le cause ultime (o prime?) della tenace sperequazione tra uomini e donne, vedendo nella gelosa difesa del potere maschile e nelle complicità femminili l’origine di un’impasse che danneggia tutte e tutti, nonché la terra che insieme popoliamo e altrettanto insieme saccheggiamo.

C’è nell’inimicizia degli uomini nei confronti delle donne, nella loro persistente indisponibilità a ascoltarle o più semplicemente nella loro incapacità di udirle e vederle, un nucleo originario di violenza difficile da estirpare e, paradossalmente, seduttivo/ipnotico per le donne stesse. Difficile anche per noi non confondere desiderio e rapacità, piacere e rapina, amore e possesso. E ancor più difficile chiamare con il suo vero nome, sfruttamento, l’uso pubblico e privato della nostra tanto esaltata inclinazione (un vero e proprio diktat biologico) alla cura e alle sue inevitabili flessibilità.

Dietro gli appelli e le piattaforme lanciati negli ultimi mesi da sigle quali “Di Nuovo” o “Se non ora quando” come non sentire un appiattimento alla dimensione economica e rivendicativa di una materia calda e problematica che implica uomini e donne e l’idea stessa di civiltà e dei suoi modelli correnti? Nei documenti che stanno uscendo dalle loro dirigenze (spesso coincidenti con il funzionariato femminile di partiti, sindacati e accademie) prevale ad esempio una visione del femminile che troppo sbrigativamente inchioda le donne alla funzione materna e riproduttiva: donne che vorrebbero diventare madri, ma non possono perché rischiano di perdere il posto di lavoro o un’attività retribuita non ce l’hanno proprio, che non riescono a pagarsi una casa e dunque a staccarsi dalla famiglia d’origine, che non possono contare sul sostegno dello stato e di servizi adeguati e gratuiti, dagli asili nido alle scuole materne. Nel quadro teorico di queste sigle, maternità, figli, accudimento, responsabilità del lavoro di riproduzione restano insomma cose da donne. Gli uomini entrano nella cornice come mera controparte cui “chiedere”.
Evidentemente a capo di questi gruppi-simbolo ci sono donne che credono nella democrazia rappresentativa e molto meno in quella partecipativa. A loro dire si tratterebbe semplicemente di essere più numerose in tutte le istituzioni politiche e civili, dai partiti alle amministrazioni, dal parlamento al governo, e il gioco sarebbe fatto: più donne al comando, più rispetto per le donne. Come se tutte le donne fossero più affidabili di tutti gli uomini. Come se donne che hanno passato la vita a lavorare con fedeltà nelle organizzazioni degli uomini senza discuterne impianto e forme relazionali fossero per natura immuni dalle cattive abitudini che è impossibile non contrarre ovunque sia in gioco il potere.
Ecco perché il loro è un ragionare su un esistente da “migliorare”, non da mettere in discussione e scardinare alla base. Ecco perché si rallegrano quando si accorgono che tutte le più recenti e avanzate analisi sociologiche individuano nell’emancipazione delle donne il principale fattore di civiltà, sviluppo economico, progresso sociale e culturale oggi a disposizione. L’analisi dei demografi francesi Emmanuel Todd e Youssef Courbage che nel loro ultimo libro, L’incontro delle civiltà (ISBN, 2009), anticipano e spiegano i recenti moti popolari nei paesi del Nordafrica alla luce di tre fattori “morbidi” – diminuzione del tasso di fertilità, aumento dei livelli di alfabetizzazione di uomini e donne, erosione dell’endogamia – non sarebbe per esempio che la conferma del ruolo emancipatorio e civilizzatore delle donne, soggetti privilegiati di tale pacifica rivoluzione dei costumi.
Si tratterebbe insomma di lasciar fare al capitale, che avrebbe in sé la miracolosa capacità di rigenerarsi sfruttando le nuove o vecchie competenze di gruppi sociali in altre epoche disfunzionali al mercato del lavoro, ma anche di emarginare fasce di lavoro salariato non sufficientemente flessibili, mobili, adattabili alle sue nuove esigenze.

Un ragionamento analogo si potrebbe fare a proposito della posizione assunta dalle medesime sigle sul tema dell’uso e abuso iconografico del corpo femminile. La pubblicità e qualunque medium abbia come fine l’induzione a desiderare o persuasione a consumare ricorrono fatalmente a rappresentazioni capaci di incoraggiare, produrre e riprodurre all’infinito tali sentimenti e atteggiamenti. Poiché in occidente il corpo femminile è considerato da parecchi secoli il rappresentante universale del desiderio e della sua strutturale insaziabilità, è quantomeno ovvio che annunci e manifesti pubblicitari e propagandistici (commissionati o prodotti da chiunque abbia da piazzare qualcosa sul mercato, non esclusi partiti, sindacati, editoria, stampa…) lo mettano – in forma più o meno metaforica e/o metonimica – al centro di ogni comunicazione commerciale o campagna di lancio.
I nudi femminili (sui sempre più numerosi seminudi maschili bisognerà prima o poi ragionare senza cadere nell’ingenua tentazione della par condicio o delle quote azzurre suggerite – mi auguro con qualche ironia – da Roberto Casati sul domenicale del “Sole 24 Ore” del 13 marzo scorso) fanno vendere, forano lo schermo, bucano il cielo delle nostre città, stuzzicano, invitano, a modo loro ci ricordano la nostra umanità facendoci sognare quel che non avremo e non saremo mai.

Immagini sessiste? Senz’altro. Il problema, però, è che si rivolgono molto spesso proprio a noi, alle consumatrici, bisbigliando al nostro orecchio: “Ecco come ti vorrebbe” e, al contempo, “Ecco come ti vorresti”. Una sorta di loop narcisistico, che in un paese dalle ideologie forti e tuttavia smagliate come l’Italia sarebbe imprudente credere di poter spezzare con la censura o un talebanico divieto a rappresentare il corpo femminile o il corpo tout court.
Difficile, nonostante la buona volontà dimostrata di recente dalla ministra per le Pari opportunità Mara Carfagna (sua la dichiarazione che “la pubblicità spesso contrasta con i principi di eguaglianza”: o bella, e perché mai dovrebbe?), distinguere tra spot che ledono la dignità femminile insistendo su luoghi comuni che la vogliono sempre e già in posizione di servizio (solo sessuale?) e spot discreti, rispettosi, educativi. Problematico, nel nostro paese, immaginare che il selvaggio mercato neoliberista si autodisciplini o si lasci disciplinare da un codice riguardoso nei confronti del “valore donna”. Forse ci sentirebbe solo se consumatori e consumatrici smettessero di consumare le merci pubblicizzate in modo sessista (e perché non anche razzista e classista? Peccato che siano quelle che più colpiscono l’immaginazione, alla lettera ci si incollano, e fanno vendere). Prima però bisognerebbe mettersi d’accordo su cosa offende chi e perché. Dovremmo sentirci meno turbate – per citare un articolo apparso a pag. 27 del “Corriere della Sera” del 23 marzo scorso – se le donne smettessero di friggere cotolette in déshabillé e le ragazze di bere aperitivi in bikini o se l’acaro gigante che entra in casa chiedesse del capofamiglia invece che della massaia? Insomma oltre a denunciare e chiedere protezione, non è arrivato il momento di dire come ci vediamo noi e come vorremmo vederci rappresentate, magari interrogandoci anche su quel sublime inganno che è ogni atto di persuasione al consumo?

Chi ne avesse voglia, provi a fare il seguente esperimento: prenda un annuncio pubblicitario qualsiasi, scegliendolo tra quelli che con “correttezza politica” non imbandiscono il corpo femminile e neppure quello maschile, e lo guardi bene. Qui di seguito ve ne propongo uno descrivendovi l’immagine e le brevi frasi che l’accompagnano. Riguarda la telefonia mobile, strumento di liberazione e di prigionia, di sfondamento delle pareti domestiche e di loro inarrestabile moltiplicazione. L’originale cartaceo – marca Siemens – svaria dal rosa carnicino al rosso carne macellata. Al centro della pagina, incorniciato da una sorta di ellissi orizzontale, campeggia un grazioso cellulare color mucosa e argento. La luce lo lambisce soave e implacabile, esaltandone la turgida parte da “sfiorare”. Lo slogan sottostante è: “La forma del desiderio”. In basso a destra ecco lo stesso cellulare, miniaturizzato, visto di scorcio e in pieno autosfioramento, accompagnato da una frase un tantino più esplicita: “Nuovo SL55. Senza il tuo tocco è niente”. E, a fondo pagina, un autorevole “Be inspired”, rivolto senza distinzione di sesso a chiunque ami indulgere in telefonici onanismi.
Come la mettiamo? Segnaliamo anche questa pubblicità alla commissione di vigilanza? Boicottiamo la Siemens? Facciamo finta di non vedere?



E, per finire, vi propongo un altro e più insidioso giochetto di svelamento. Tante volte, all’occhio del potenziale censore, le pubblicità possono risultare del tutto inoffensive e magari – a parte la loro funzione di esche per la consumatrice – lo sono davvero. Tra loro e noi, tuttavia, c’è un’altra scherzosa figura professionale, quella dell’impaginatore, che talora si diletta a “posizionarle” con effetti di contiguità, contrasto, ridondanza, piuttosto curiosi. Vediamone una, che preferisco supporre frutto di una scelta consapevolmente maliziosa che di un inconscio spaventosamente allo sbaraglio.
“La Repubblica”, giovedì 7 ottobre 2004, pagina 19. In alto, su due colonne, la consueta vignetta di Bucchi: cinque figure sdraiate al suolo, raggomitolate in posizione fetale, lungo la piattaforma di una stazione della metropolitana. Su una campeggia la scritta “Io sono rifugiato politico”, sulla successiva un laconico “Io economico”. Nella parte inferiore della pagina, su tre colonne, l’immagine fotografica di una sensuale modella targata Dolce&Gabbana, raggomitolata a terra esattamente nella stessa posizione delle precedenti. Impossibile non chiedersi: “E lei?”
Per un giornale-partito tutto savianerie, intercettazioni piccanti, elenchi di domande inevase all’attuale primo ministro, rincorsa di girotondi/palasport/sigle in movimento, una gran bella anticipazione davvero!

 


Per gentile concessione di “LO STRANIERO”, maggio 2011
http://www.lostraniero.net/archivio-2011/128-maggio-2011-n-131/638-donne-della-repubblica.html

 

11-05-2011

 

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