Il figlio fuori di sé
di Annamaria Medri




Giovanna Garzoni

 

Fino all'approvazione della legge 147, al Senato, pensavo che la procreazione medicalmente assistita fosse una delle possibilità da percorrere in caso d'infertilità, una questione che riguardasse una minoranza di donne; ho guardato alla cosa in modo pragmatico e avevo aderito alla richiesta di un regolamento (appello della CGIL e della LUD del '99), di una "legge leggera", per la gestione dei diversi casi in questione. Non avevo compreso la portata simbolica e politica del fare un figlio fuori di sé.
Mi ero fidata della capacità di mediazione e di rappresentanza del ceto politico e non mi ero resa conto della valanga che stava travolgendo le relazioni e le alleanze politiche per concepire immagini nuove e tranquillizzanti, per ridare significato ad una realtà manomessa e inquietante.

Hanno ragione Maddalena Gasparini e Anna Rollier, gli embrioni congelati e conservati nei freezer creano disagio specie se si conosce il loro numero: trentamila in Italia, circa tre milioni sparsi nel mondo (dotato di strutture idonee ed elettricità). Insomma questa possibilità di vita, gelata fuori dal corpo femminile, è un po' la concretizzazione del fantasma del rifiuto, dell'abbandono (essere scacciati per sempre da quel utero materno accogliente), dell'impossibilitò di venire alla luce; una specie di ossimoro: la natura e il numero delle possibilità creano il loro impedimento. Il rischio statistico che gli embrioni crioconservati rimangano dei non-nati è alto.
Il disagio è determinato anche dal fatto che l'embrione, di cui si va parlando, è una realtà totalmente nuova, creata dalla scienza attraverso un'applicazione tecnologica. Una tecnologia che realizza la "magia" del fare/dare la vita allo scoperto, sotto i riflettori, utilizzando in modo diverso e differito, nel tempo e nello spazio, quegli strumenti (ovuli e spermatozoi) che sono a disposizione, celati e chiusi, nei corpi di tutti.

Ed ora questa cellula fecondata si trasforma nell'immagine di un nato, un piccolissimo neonato, il figlio pronto fuori di sé: basta allungare la mano e prenderlo. Un po' come nella storia di Pollicina di Andersen: una signora sola si rivolge ad una vecchia saggia che le dona un seme da interrare in un vaso. Germoglia e sboccia una specie di tulipano, la donna lo bacia; il fiore si apre rivelando la presenza di una bambina, alta quanto un pollice, che saluta la madre… e comincia ad andare da sola, prigioniera e libera, nel mondo. La consiglio, è una fiaba probabilmente femminista, sicuramente emancipazionista.
Nadia Filippini, nell'ultimo numero della rivista Genesi , ripercorre il processo storico che ha portato, dal settecento ad oggi, all'appropriazione da parte del pensiero maschile, scientifico e medico, della scena del parto e alla personificazione del feto. Il non-nato viene immaginato come persona: la nascita non è più la venuta alla luce, ma la presenza in utero di un essere che attraverso le proprie autonome trasformazioni, divulgate attraverso bellissime illustrazioni, convalida persino le teorie evoluzionistiche.

Sganciata dal parto, la nascita diventa prima una "invisibile presenza", poi una presenza fotografata e filmata, ora un embrione autistico; si è voluto costruire un immaginario che arriva ad identificare il non-nato come un "cittadino". E nella modernità, il cittadino si caratterizza per libertà, uguaglianza e indipendenza. E' lì presente a sé e alla società senza legami col corpo femminile che lo ha partorito; non ha alcuna origine, esiste, senza alcuna relazione di dipendenza col corpo materno: un'astrazione disincarnata ma universale. Ancora più avulsa dal reale è la soggettivazione, per legge, dell'embrione; questo oggetto diventa il "concepito", soggetto isolato, solo all'interno dell'immagine e dell'agire tecnologico, carico di un investimento emozionale e simbolico e, contemporaneamente, sradicato dal processo relazionale e biologico che può permettergli di diventare un essere umano.

Il disagio è dato anche dal sovrapporsi di diversi piani legati alla fecondazione in vitro e immediatamente assorbiti e ricondotti alla procreazione medicalmente assistita, addirittura alla procreazione tout court. Un groviglio simbolico determinato dall'agire tecnologico e dal pensiero magico (e/o religioso) che si rafforzano reciprocamente per opposizione e contrasto; il tutto viene tenuto insieme dalla paura, dalla sensazione di pericolo, indotta dall'onnipotenza dei pensieri e delle realizzazioni.

E' possibile mettere sullo stesso piano procreare una figlia o un figlio, attraverso un rapporto sessuale, magari d'amore e persino di piacere, tra un uomo e una donna e la prestazione sussidiaria offerta dalla PMA? Allora perché non cogliere al volo la proposta del dottor Antiseri, uno dei padri della PMA, che promette alle donne fertili l'opportunità di congelare in un'unica soluzione tutti i propri ovuli per decidere successivamente il momento, il modo e quali spermatozoi usare per avere un figlio. In fondo è una comodità: a venticinque - trenta anni si è già in menopausa senza più il fastidio, il "limite", delle mestruazioni.
Non è certo occasionale che ad un medico con grandi competenze tecnologiche, consapevole che meno del 10% della procreazione assistita arrivi al successo, venga in mente una proposta del genere: l'infertilità di una minoranza si supera attraverso l'infertilità della moltitudine ed uno stretto controllo tecnico che promette potere, successo e la crescita esponenziale dei propri guadagni.

Per riuscire a discriminare dentro il nuovo immaginario della nascita è necessario ristabilire dove inizia lo spazio e il tempo di una bambina e di un bambino: il luogo e i nove mesi dentro una pancia concreta, nel corpo di una donna che ha desiderato e deciso di diventare madre. Il legame stabilito dal cordone ombelicale, di cui tutte e tutti portiamo traccia attraverso una graziosa cicatrice tonda, e la relazione asimmetrica del rapporto madre figlia/o che porta alla distinzione tra interno ed esterno, tra soggetto consapevole e soggetto in fieri. Il vero problema è l'incapacità di declinare sul piano etico e del diritto questa asimmetria originaria occultata dalla religione, dalla scienza e dalla società, dagli uomini e dalle donne: non si nasce liberi ma dipendenti per acquistare nel tempo e nello spazio, con cura e fatica, la propria autonomia. L'embrione può essere la preistoria di qualcuno solo ed esclusivamente se esiste una storia, la vita di un uomo o di una donna.

A partire da sé, dall'essere soggetti femministi, dalla propria storia e dal pensiero espresso e da pensare si può costruire un percorso per guardare in faccia la tecnologia della procreazione e della genomica senza la paura di essere annichilite o, peggio, superflue rispetto al processo della vita e della scienza.

Bisogna riprendere parola, trovare luoghi fisici e politici per intrecciare rapporti ed esprimersi come soggetti femministi: "persone in carne ed ossa capaci di avere voce e quindi di interloquire e ribattere. E non una volta per tutte ma ogni volta, tante volte" tutte le volte necessarie "in ognuno dei molteplici inizi dei soggetti di liberazione." come dice Lidia Cirillo