RUJIEB

7 novembre 2002


 

Rujieb è un villaggio che, insieme alla vicina frazione di  Al-Iskan, conta  circa quattromila abitanti. Chi dice tre. Chi dice cinque. Gli abitanti sono piccoli contadini che allevano mucche o pecore o hanno uliveti, o operai. Gli operai una volta lavoravano in Israele, ora non più. Gli uliveti del villaggio si trovano per lo più nella valle vicina, al di là di un crinale al quale si sale a piedi – niente trattori nella Palestina occupata. Si deve attraversare una by-pass road che porta all’insediamento di Itamar che controlla da vicino gli uliveti di Rujieb e di un altro villaggio, quello di Beit Furik.

A Rujieb ci sono due scuole.
Una femminile e una maschile. Quella femminile è una scuola di base – secondary school – dai sei ai sedici anni. Quella maschile ha anche i due anni preparatori per il taugihi, l’esame di maturità che permette di accedere all’università. Le ragazze che vogliono prepararsi per il taugihi lo fanno nella scuola dei maschi, al piano superiore.  In tutto ci sono 1000 ragazzi in età scolare, i maschi, secondo i conteggi sono un po’ di più. Ma nessuno lo sa per certo.   Quello che si sa è che dai tempi dell’invasione il già scarso personale insegnante (20 insegnanti per la scuola delle ragazze, che sono poco meno di cinquecento) si è ridotto ad un quarto. In certe mattine gli insegnanti sono cinque o sei e lo si capisce passando per la strada che costeggia la scuola. Scendendo si incontra per prima la scuola femminile. Le ragazze, con i loro grembiuli a righe verdi e bianche oppure azzurre e bianche e per lo più con il velo in testa, si aggrappano alle inferriate delle finestre e cercano in ogni modo di attirare la tua attenzione gridando hallo, hallo, what’s your name. Se poi è l’ora della ricreazione si precipitano tutte in strada, e ti circondano e ti tirano da tutte le parti e prendendoti per le braccia ti trascinano nel cortile.  I ragazzi invece si arrampicano sul muro e vedi tutte le teste in fila sporgersi in fuori. How are you. How are you.

Gli insegnanti non possono venire al lavoro per via del coprifuoco che da sei mesi soffoca la vicina città di Nablus che sta dall’altra parte della valle, verso ovest e si potrebbe benissimo raggiungere a piedi passando per il campo profughi di Balata. Ma Nablus è divisa in due come Berlino ai tempi suoi, Nablus est con il coprifuoco e Nablus ovest senza coprifuoco. Volendo si può passare, per carità, ma lo si fa rischiando la pelle. E “nessuno vuole morire” dice saggiamente Jamil Dweiket, che del villaggio è una persona importante.

Avevamo contattato il dottor Ghassam Hamdan della Union of Palestinian Relief Committees  di Nablus perché sapevamo che il raccolto andava male nella zona. Ci aveva detto di raggiungerlo a Nablus da dove poi ci avrebbe indirizzato dove c’era più bisogno.

Da Gerusalemme sono cinquantanove chilometri. Si prende un taxi collettivo fino al check point di Qalandya e poi un altro taxi collettivo fino al check point di  Huwwara, fuori da  Nablus. Non è proprio così semplice, a dire il vero. Il taxi collettivo parte solo quando è pieno e certe volte bisogna aspettare anche mezz’ora prima che ci siano tutti i clienti.

Ben presto si deve abbandonare la strada asfaltata, strada aperta “a tutti”,  per inerpicarsi per monti e valli attraversando voragini e superando macigni messi lì dall’esercito occupante. Poi ci sono i posti di blocco volanti. Tutti giù, no tutti su tranne l’autista, carte verdi, carte gialle, carte arancioni, fermi, avanti, un passo indietro. Insomma ci vogliono tre ore, se la va bene per arrivare a Huwwara. Lì il taxi ti pianta. Un tratto a piedi, fermi. Avanti lui, indietro lei. Fucili puntati. Ambulanze che aspettano. Dove va? A Nablus. Perché? Per vedere. Per vedere che cosa? Per vedere. Alzata di spalle. Ancora avanti a piedi.

Un altro taxi ci scarica in strada protetta, dietro le macerie del palazzo del governo. La gente si avvia di nuovo a piedi tra pozzanghere, rivoli maleodoranti, montagne di automobili sfasciate, una processione di dolenti in una città dolente. Sparatorie, soldati che corrono, carri armati che sferragliano, bambini che lanciano sassaiole da dietro un muro.

Approdiamo alfine al piccolo centro della UPRC e a cui fa capo anche il PARC e incontriamo il dottor Ghassam Hamdan. Qui ci viene mostrata una piccola oasi di speranza: l’ambulatorio già funzionante, la stanza dove ci sarà la biblioteca, la futura sala per computer, la futura aula per studiare inglese, nel cortiletto microscopico pensano di farci entrare un campo di pallavolo e un canestro, nella stanza grande un auditorio, “per i ragazzi”, per dar loro un futuro. C’è anche un minuscolo giardino. Il dottor Ghassam ci saluta e sparisce in fretta, dicendo che si farà vivo tra mezz’ora per comunicarci la nostra destinazione. 

Intanto che aspettiamo arriva uno school bus e scarica una cinquantina di scolari di varia età. Il conducente chiede se qualcuno di noi internazionali è disposto ad accompagnare i ragazzi alle loro abitazioni che sono al di là della linea del coprifuoco, visto che la situazione non è tranquilla e lui non si fida ad andare più oltre. 

Con Andrea e Heidi, una studentessa di medicina danese che fa la volontaria nel centro, prendiamo i bimbi più piccoli per mano, e con gli altri in fila un po’ davanti e un po’ dietro ci incamminiamo giù verso la zona calda, di nuovo arrampicandoci sulle macerie, attraversando orride pozzanghere, fango puzzolente. I bambini chiacchierano allegri, what’s your name, what’s your name. E poi “Hai paura?” I carri armati sembrano appartenere ad un film che si proietta al di là della strada. Alla fine tutti sono a destinazione. O quasi. Non vuoi che faccia un altro pezzo di strada con te? No. No. Va bene. Bye. Bye.

Al ritorno ci dicono che dobbiamo andare a Rujieb. Saliamo sull’ennesimo taxi e via per strade improbabili, discariche e ulivi polverosi fino al villaggio. Nella casa di Sami e Rada Dweiket sono già alloggiati sette ragazzi inglesi dell’International Solidarity Movement che sulle prime sono un po’ contrariati del nostro arrivo. “Non avete fatto il training” obbiettano. Ma noi resistiamo. Qui siamo e qui rimarremo.

Loro sono inglesi, esotici. Credono che tutti al mondo parlino la loro varietà dialettale di inglese pronunciato senza aprire la bocca, a mezza voce e senza guardarti in faccia. Sono convinti che essere vegetariani, anzi vegan, sia un imperativo morale universalmente acquisito. Sono sicurissimi che si debba discutere di tutto e soprattutto sono depressi perché sono sul posto da un giorno e oggi il raccolto non è andato bene.

Chiamati dai coloni sono arrivati i soldati che hanno minacciato di arrestarli dicendo loro che la zona della raccolta era area militare chiusa e, dietro richiesta, producendo a supporto dell’affermazione un documento evidentemente falso. Sono un po’ delusi del fatto che i contadini abbiano deciso di lasciar perdere, e sono perplessi perché una famiglia ha rifiutato il loro aiuto. Si siedono in cerchio e, a voce bassa, si discute il che fare. In primo luogo ognuno dichiari se sia disposto a farsi arrestare dall’esercito rifiutando di ubbidire agli ordini.

Non tutti sono “arrestabili” in modo particolare non lo sono io e non lo è Andrea che ricorda che ci si fa arrestare solo se il gioco vale la candela. Andrea Piccinini con cui sono arrivata fin qui, e' un mio coetaneo veterano di mille campagne pacifiste, saggio e imperturbabile.  Io spiego che un contadino è geloso della sua terra, e che bisogna pazientemente costruire un rapporto di fiducia.

Sami e suo padre, che sono i diretti interessati alla raccolta delle olive, hanno deciso di andare all’ufficio del District Coordinating Officer l’indomani a notificare la loro intenzione di fare il raccolto. Le cose in teoria dovrebbero andare nel modo seguente. Il contadino notifica al DCO la sua intenzione di recarsi nel suo campo a fare il suo raccolto e l’esercito, avvertito,  si tiene pronto a proteggerlo nel caso che ci sia un attacco di coloni. Come si può immaginare le cose non vanno esattamente come descritto.

Dal balcone della stanza dove dormiamo si vede Nablus al di là della valle, illuminata da spettrali luci arancioni.  E’ tutto un saettare di razzi traccianti, un vociferare di rabbiose scariche di mitra, il consueto orrido sferragliare dei cingoli sull’asfalto. E’ l’affaccendarsi a scopo di terrore dell’occupazione militare israeliana. L’incomprensibile andare e venire di esseri alieni e senza cuore.

  

immagine di Nablus dal sito  http://www.nablus.org/

Alla mattina alcuni dei ragazzi partono per far visita al DCO con i contadini, per dar loro man forte. Non li rivedremo per tutta la giornata, perché la tecnica è quella di sfiancarti con le attese. "Tra mezzora, tra un’ora, è uscito un momento, arriva subito". Cose che sono note anche a noi italiani, ma qui la stessa trafila avviene per qualsiasi piccolo innocente fatto quotidiano.

Vado in esplorazione per la strada centrale del paese. Ci sono le scuole sulla sinistra e una bella moschea blu sulla destra. E’ incominciato il Ramadan e c’è un’aria semi festiva. Le ragazzine mi vedono e traboccano fuori dalla scuola, mi acchiappano e mi trascinano come un burattino. Mi libero di loro, chiedo scusa all’insegnante di inglese per il disturbo che ho creato, lei si scusa con me. "Mi dispiace, abbiamo solo cinque insegnanti oggi, molti non sono riusciti a venire e la situazione è terribile, terribile." La capisco, le chiedo quando potrei parlare con lei e lei prontamente mi invita a cena a casa sua per le cinque, dopo la fine del digiuno. Questa sera spera che anche suo marito possa uscire da Nablus dove lavora e tutta la famiglia sarà riunita.

Procedo passando sotto le teste vocianti dei ragazzi che si sono affacciati al muro. Più in là una voce di donna mi chiama da una finestra. “Sei qui per la raccolta delle olive” ?– olive si dice zeitun da cui lo spagnolo aceitunas. Rispondo di sì e prontamente sono invitata ad aiutare la sua famiglia. Con il cellulare chiamo Andrea e gli altri che arrivano - non senza aver discettato dei pro e dei contro - mi dice Andrea che le discussioni proprio non le sopporta. Lei si chiama Shama e mi invita a visitare la sua casa intanto che aspetto.

Una casa dove non manca lo spazio, sul tetto c'è perfino un pollaio e un allevamento di piccioni. Il marito lavora a Tel Aviv dove aiuta uno scultore nella sua fonderia. Non viene a casa quasi mai. Ha quattro bambini e, mi dirà poi, la sua vita a trentadue anni è finita. “Ho pianto tanto quando mi sono sposata, volevo andare all'università e fare l’avvocato. Ma i miei genitori non hanno dato il permesso. No che non amavo mio marito, ma che cosa vuoi? Ci si abitua, cooking, washing, eating, cleaning, sleeping” ha imparato un po’ di inglese guardando la TV. Tutte le donne hanno imparato un po’ di inglese guardando la TV.

Ed è così che trascorriamo la giornata nel campo dei signori Mustapha Ali, con la nonna Naima, le figlie Arife, Shama, Radma, la nuora Sfita che viene nientemeno che dall’Ukraina, un imprecisato numero di ragazzini e ragazzotti. Chiacchierano allegre, stendono i teli, aprono le scale ed è tutto un ticchettio di olive che piovono, si sentono i nomi di Blair, Bush, Sahron, Netanyau, Arafat. Parlano di politica. Forse di quando finirà l’orrore in cui vivono, forse di cose di donne. Le donne parlano molto tra loro di cose di donne. E' una normale giornata di raccolto, serena e rilassata, come dovrebbero essere tutte le giornate di raccolto.

Tornando mi fermo all’ufficio di Jamil Dweiket, una specie di capo del villaggio, se capisco bene. Lui ha una faccia straordinaria, aristocratica e intelligente, piena di humor. E’ uno che la sa lunga e apprezza il fatto che io vada a ringraziare il villaggio per l'ospitalità che generosamente ci viene offerta. Gli presento due rappresentanti del gruppo, Jo e Simon, pronunciato Soimon, che stanno educatamente seduti di fronte a lui e comunicano con lui nel  loro incomprensibile inglese. Io faccio da interprete.

Poi, con Andrea vado a cena da Rana Tufaha, l’insegnante di inglese della scuola femminile, e suo marito Nawwaf Qadri che vivono nella frazione di Al-Iskan. Si parla di figli. I palestinesi, mi dicono, devono fare molti figli perché “altrimenti gli israeliani ci uccidono tutti”. “il nostro popolo deve sopravvivere, i figli sono il nostro futuro. Non è come da voi in Italia, voi fate pochi figli. La gente è potente e può fare ciò che vuole, but our class is low in the world.[Noi siamo in basso nella scala del mondo]”

E’ soprattutto Rana che parla. Mi parla fitto fitto in cucina, “Before September 11 I  wrote to many schools in London. I wanted to visit them they wanted to visit me, but after September 11 England is against us. Blair thinks we are all terrorists. We have no holiday, no picnics, no tourism, all we have is killings and fights. We have many Mandelas in this country, but nobody knows about them. They die and nobody notices. I approve of the suicide bombers. Even if it were my son I would approve. You cannot control your children. Once I went to Turkey. It was beautiful. I wish I were born in Turkey”. ["Prima dell'11 settembre avevo scritto a molte scuole a Londra. Volevo visitarle, e loro volevano venire a visitare me, ma dopo l'11 settembre l'Inghilterra è contro di noi. Blair pensa che siamo tutti terroristi. Non abbiamo vacanze, niente  picnic, niente turismo, abbiamo solo uccisioni e combattimenti. Abbiamo molti Mandela, ma nessuno sa di loro. Muoiono e nessuno se ne accorge. Io sono d'accordo con gli attacchi suicidi. Anche se si trattasse di mio figlio approverei. Non si possono controllare i figli. Una volta sono andata in Turchia. Era bello. Vorrei essere nata in Turchia" ]

Interrompono la cena per pregare. Durante il Ramadan si deve pregare ad ore precise, al canto del muezzin. Per pregare Rana si vela e tutta la famiglia si inginocchia sui tappetini appositamente estratti. Mi spiegano che la religione è importante. Importante, ancora una volta, perché solo chi è ricco e potente può fare ciò che vuole. Noialtri, dicono, abbiamo solo la religione che ci aiuta, ci dà forza.

Quando è ora di andare, si sente dire che ci sono in giro dei carri armati. Rana ci vuole accompagnare con la macchina. Insiste: almeno fino a metà strada. Ci fa entrare nella panda sconquassata e, all’ultimo momento, suo marito Nawwaf infila in macchina i tre bambini. “Per protezione, così non torni sola”. “Io confido in Dio, fa lei avventurandosi nella notte buia”.

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