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Questo articolo è apparso, ridotto, su il manifesto del 27 agosto 2004. Eccone la versione originale Leggendo la Lettera del cardinal Ratzinger sulla "collaborazione dell'uomo e della donna" e i commenti che vi hanno fatto seguito, colpisce che un testo così compatto e inequivocabile quanto al senso e alle finalità che lo muovono, abbia potuto dare luogo a letture e giudizi tra loro molto diversi, spesso contrastanti. C'è
chi vi ha visto una Chiesa che finalmente "benedice la sessualità",
chi, al contrario, una riconferma del suo assunto 'normalizzatore'
contro il rischio di un libero "polimorfismo sessuale";
chi un intervento utile a mettere fine al "caos" generato
dal "veterofemminismo", che avrebbe "ingannato e rovinato"
molte donne, chi invece, come Ida Domijanni e Luisa
Muraro, un documento "nuovo" e "dirompente",
che dimostrerebbe da parte della Chiesa un'inattesa capacità
di ascolto e contaminazione rispetto "al cambiamento prodotto
dalla rivoluzione femminista", in particolare nei confronti del
"pensiero della differenza sessuale", che andrebbe così
a riscuotere quel riconoscimento, sia pure non dichiarato, che ha
atteso invano dalla sinistra (Il Manifesto3 agosto 2004- 7 agosto
2004). Per il resto, la Lettera appare come una "risposta" ferma a un pericolo, che non viene riscontrato, come ci si aspetterebbe, nei "sogni di potere" e nel "dramma della violenza", che oggi sconvolgono il mondo -il che avrebbe comportato l'analisi di una "maschilità" distruttiva-, ma proprio nei cambiamenti che hanno visto negli ultimi decenni molte donne diventare più consapevoli e più padrone della loro vita. Al di là della maggiore vicinanza o distanza da questa o quella corrente di pensiero femminista -tra l'altro, le teorizzazioni di Luisa Muraro sull'"ordine simbolico della madre" e sul Dio femmina non sono certo meno "conflittuali" della ricerca di poteri tradizionalmente maschili- ciò che inquieta, e che ritorna insistentemente nel testo, è il fatto che, per un'imprevista "presa di coscienza" oggi le donne vengano legittimando la possibilità di "esistere per se stesse", fosse anche solo per "risignificare" liberamente qualcosa che hanno subìto, dando un segno positivo a quelle stesse condizioni per cui sono state inferiorizzate: la maternità, la "vocazione relazionale". Di questa "libertà", che io non considero tale e che chiamerei piuttosto un'"alienazione attiva", non vedo nella Lettera, diversamente da quanto hanno scritto Domijanni e Muraro, alcuna traccia. Così come non direi che vengano messe a tema l'arroganza della "ragione", che qui anzi si impone nella sua forma più alta e più assoluta, come "verità rivelata", e la rottura tra biologia e storia, dal momento che la differenza sessuale vi è affermata, come ha scritto Rossana Rossanda (Il Manifesto22 agosto 2004), sulla base dell'ordine voluto dal Creatore, e quindi "ben al di là del dato biologico".
Ma è
proprio su questo "simbolismo", considerato "indispensabile"
per quanto "audace" nell'unire sacro e profano, che si avverte
una nota di imbarazzo, quasi una excusatio non petita, e poi subito
dopo la precisazione che riporta al centro ancora una volta la gerarchia
nota: prima il cielo e poi la terra, prima Dio e poi gli uomini. I
termini "sposo" "sposa" sono "molto più
di semplici metafore", e i loro referenti reali, gli "sposi
cristiani", sono soltanto "segni viventi" dell'amore
di Cristo e della Chiesa. Analoga "disumanizzazione" è
quella che Rossanda rileva a proposito di Maria, attraverso i dogmi
dell'"immacolata concezione" e dell'"assunzione al
cielo". I "dati biologici" contano per la Chiesa solo
in quanto riflettono l'immagine e la "natura" del Creatore.
Le differenze tra i sessi, così innestate nel disegno di Dio
e poi nel "mistero pasquale", sono destinate a durare "oltre
il tempo presente". E' su questi "presupposti" astorici
che si fondano anche le "nuove prospettive" riguardanti
i "valori femminili" nella vita della società e della
Chiesa. Mi chiedo se a lusingare il femminismo che si richiama al "pensiero della differenza" non sia stata la funzione particolare, che del resto la Chiesa ha sempre riservato alla donna, e che qui è ripresa con toni alti e, dal punto di vista linguistico, "moderni". Se si glissa sulla premessa -che si lascino "convertire" all'amore per l'altro-, le donne, la loro vita, i loro modi di essere, possono diventare "ricchezza" e "modello" per l'"umanizzazione" di una civiltà che sembra votata alla morte. Ma il prezzo di questo primato e di questa investitura salvifica, che il maschio è chiamato a riconoscere, traendone esempio, ha come contropartita l'impermeabilità ai cambiamenti della storia e delle coscienze, la sordità rispetto a quella "soggettività femminile" che oggi chiede, in modi liberi o meno liberi, di decidere della propria sorte. Non è casuale che la Lettera si chiuda con l'immagine di Maria, una femminilità fatta di "ubbidienza umile e amante", capace di "fedeltà"e resistenza al dolore, quelle stesse doti che il Pontefice invoca in una "nuova preghiera" scritta da lui: "vergine della speranza", "dimora santa del Verbo","umile serva del Signore", "donna del dolore", "Madre dei viventi", "Vergine sposa", "nostra guida sulle strade del mondo"(Corriere della sera, 15 agosto 2004). Dopo il peccato originale, sembra che sia il risveglio imprevisto della coscienza femminile la nuova "ferita" da guarire. E questa Lettera, con il suo medicamento antico, appare in questo senso effettivamente "aggiornata".
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