Riattivare la memoria arcaica: nuovi sguardi sul futuro
di Nicoletta Cocchi


Maria Gimbutas

Che cosa ci spinge a interrogarci sulle antiche società del passato e su quelle delle attuali culture indigene, a rivolgere la nostra attenzione alle rappresentazioni sacre e alle cosmogonie del femminile prima del patriarcato? E che cosa vuol dire riattivare la nostra memoria arcaica, richiamare gli atti memorabili delle nostre antenate, che è quanto Mary Daly ci invita a fare?

Ma prima di rispondere a questa domanda è forse utile indagare la storia di un’interessante quanto potente parola, matriarcato, che da oltre un secolo divide studiose e studiosi, creando ora entusiasmi ora imbarazzi. E’chiaro che dietro questa potente parola si cela un’interpretazione del mondo, la storia delle origini dell’umanità e, dunque, dei suoi possibili sviluppi.

Affermare che il mondo è stato sempre così come lo conosciamo, che per esempio la divisione del lavoro e della responsabilità tra i generi è stata sempre la stessa e ovunque, e affermare, invece, che la storia dell’umanità ha conosciuto forme e modelli diversi di organizzazione sociale tra i sessi, dove l’apporto di civiltà e creazione delle donne è stato determinante, mette in campo premesse totalmente differenti da cui partire per pensare, eventualmente, un altro futuro. In queste righe è già in qualche modo contenuta implicitamente una risposta alle domande poste all’inizio: attingere dal passato per guardare al futuro, la qual cosa non significa, naturalmente, tornare indietro, semmai, ricordare alla storia patriarcale che la sua civiltà, che è stata posta all’inizio della storia, non fu nient’altro che un sostituirsi a una civiltà più vecchia, e che l’elemento stimolatore e rivitalizzante in ciò che noi conosciamo come civiltà è stata la donna. Elizabeth Gould Davis, nel “Primo Sesso”, scrive che “il primato delle dee sugli dei, delle regine sui re, delle grandi matriarche che prima avevano addomesticato e poi rieducato l’uomo, andava nella direzione di un passato mondo ginocratico. Egli, l’uomo (patriarcale) ha riscritto la storia con la consapevolezza di ignorare, sminuire e ridicolizzare le grandi donne del passato… ed ha rifatto Dio a sua immagine”.

Pensare un altro futuro, più equo e basato su principi intelligenti coltivati in migliaia di anni di esperienza femminile, ma anche di lotte, di pensiero e di pratiche, e questa è storia recente, è un compito che ci riguarda tutte. E’ per questo che le teorie sulle origini della civiltà che di volta in volta vengono avanzate presentano non solo un interesse accademico, ma sono un vero campo di battaglia per le prospettive future dei nostri sistemi sociali e delle nostre vedute sulle possibilità umane. Allora diciamolo e sosteniamolo: il mondo non è stato sempre patriarcale, il sistema di guerra intorno a cui ha cominciato a organizzarsi questo tipo di società, il cui circolo vizioso sta ammorbando ogni aspetto della nostra vita, un tempo, forse poi non così mitico come vogliono farci credere, non esisteva. Lo testimoniano le continue scoperte di civiltà passate che non mostrano segni di violenza, lo confermano i ritrovamenti archeologici disseminati in varie parti del mondo, lo raccontano le leggende, i miti e gli archetipi, la storia del folklore e l’arte popolare che sotteraneamente ha attraversato la nostra storia patriarcale.

Non erano matriarcali quelle società, nel senso di un equivalente femminile del patriarcato, vale a dire che non prevedevano forme di predominio femminile, ma mettevano in campo valori di fondo, oggi diremmo spirituali ed etici, incentrati su un modello femminile che informava l’intera struttura della società a tutti i livelli: economici, estetici, politici, sociali. La storia di questa potente parola, matriarcato - ora cominciamo a vederlo – è intrisa di malintesi e omissioni e ha finito per diventare fuorviante, pur conservando una sua realtà, verità e forza, che forse va indagata diversamente. Vediamone un po’ la storia.

Gli studi che a partire dall’800 si sono occupati del passato e delle cosiddette popolazioni primitive sono stati sostenuti fondamentalmente da una logica interpretativa di semplice rovesciamento del concetto di patriarcato. Ciò significa che si è dato per scontato tale ordine, e quello che non vi rientrava veniva letto con lo stesso sistema di valori e non eventualmente secondo presupposti altri, non considerando cioè organizzazioni mentali o strutture sociali differenti, cosicché il diverso, l’altro, sono diventati speculari. La lettura che ne è uscita è che sarebbe esistito un matriarcato, le cui premesse erano esattamente le stesse del patriarcato, come dire, invece del dominio maschile esisteva un dominio femminile. Sebbene molti antropologi associno il termine matriarcato col lavoro di Bachofen  o di Morgan, questo termine fu usato per la prima volta da Taylor nel 1986, mentre Bachofen usò il termine ginecocrazia (dal greco gyne, donna, e kratos, dominare) nel sottotitolo della sua opera “Das mutterecht”, il diritto della madre, tradotto poi con matriarcato.

E’ nella seconda metà del 900, con i nuovi studi e le nuove scoperte nel campo dell’archeologia e dell’antropologia che prendendo in esame culture differenti dalle nostre, come quelle aborigene, africane , della Nuova Guinea ecc., ci si è accorti che usando parametri di valutazione quali matriarcato contro patriarcato, seguendo cioè una logica duale di contrapposizione, questa non funzionava perché in quelle società vigeva un sistema del sacro e del sociale diviso tra maschile e femminile, dove ciascun genere aveva le proprie conoscenze ed entrambe avevano pari dignità e peso. In queste società esisteva un sistema di discendenza matrilineare con forme di residenza matrifocale, ma non per questo erano le donne a dominare. Come scrive Luciana Percovich, “alla luce di questi studi è stato possibile poi dare una lettura diversa anche alle testimonianze che arrivavano dal nostro stesso passato, cioè dalla nostra stessa Europa”. E’ in questo periodo che gli studiosi cominciano ad ammettere, non senza imbarazzo, che la storia dei Greci e dei Romani non era la sola storia a cui guardare, e quella indiscussa su cui si fonda e autolegittima la civiltà occidentale, ma che prima c’era stata anche tutta un’altra storia, insieme a quella parallela che esisteva al di fuori dei confini territoriali e conoscitivi della polis o della civis romana. Insomma quei barbari non erano forse poi così barbari: era esistito un patrimonio di conoscenze, tecniche, miti e beni materiali di cui anche la civiltà con la c maiuscola si era servita. E’ così, continua Luciana Percovich che “anche i Celti hanno avuto il loro riconoscimento e non dispero che anche le culture protoeuropee prepatriarcali –di cui parlare adesso fa rischiare ancora il ridicolo - un po’ alla volta si imporranno al riconoscimento generale, viste le continue conferme che giungono dai miti e dalle leggende, dalle testimonianze archeologiche, linguistiche e ora anche genetiche”. Negli anni successivi sono nati poi altri studi, soprattutto di donne, che per evitare l’equivoco del capovolgimento matriarcato-patriarcato hanno messo in campo nuovi termini come gilania, matrifocalismo, matrilinearità, per dar conto di una civiltà egualitaria incentrata sul femminile, in cui la donna era preminente nel senso di elemento civilizzatore e non dominatore. E’ il caso anche del lavoro di Marija Gimbutas, che per descrivere l’Europa neolitica ha rifiutato il termine matriarcato, preferendo termini quali gilania, matristica.

E’ vero però che questi termini sono ugualmente problematici perché mettendo in risalto la linea di discendenza e il modello di residenza non sempre rendono giustizia all’ordine cosmologico e socioculturale informato dal femminile che nell’insieme reggevano quelle società.

I nuovi studi matriarcali contemporanei che si sono sviluppati in questi ultimi vent’anni stanno mettendo in campo un concetto culturale specifico di matriarcato, che va  al di là del pregiudizio ideologico legato all’analogia con patriarcato, sostenendo la necessità di riconfigurare il concetto, vista la mancanza di una teorizzazione precisa. Questa nuova scienza multidisciplinare e transculturale esplora società antiche e contemporanee che mostrano e riconoscono il ruolo centrale delle donne nello sviluppo delle società umane, mettendo in luce la profonda struttura incentrata sul femminile e il modo in cui va a impattare su tutti i livelli sociali. E’ il caso di molti gruppi etnici minoritari, (circa un centinaio) sparsi in varie parti del mondo, dall’Africa, all’Asia agli Stati Uniti, che hanno conservato modelli matriarcali fino a oggi. L’antropologa femminista, Peggy Reeves Sunday, sostiene che il termine matriarcato si può usare in quelle società dove l’ordine cosmologico e sociale è legato a un’antenata fondatrice, primordiale, dea madre, o regina archetipa – mitica o reale – i cui principi sono incanalati in specifiche linee-guida di condotta pratica. Vale a dire che le qualità archetipe dei simboli femminili non esistono soltanto nell’ordine simbolico, ma si manifestano anche nelle pratiche sociali che influenzano la vita di entrambi i sessi, e vanno a nutrire l’intero ordine sociale dando vita a società bilanciate.

In questa definizione, il contesto di matriarcato non riflette un potere femminile sui soggetti, non è un potere soggiogante, ma un potere femminile di donne, di madri e di anziane, che congiunge, lega e rigenera i vincoli sociali nel qui e ora e anche nel dopo. La connessione tra l’archetipo e il sociale fa sì che queste società non siano interpretate come l’equivalente femminile del patriarcato. E’ il caso per esempio dei Minangkabau, una popolazione indonesiana (Sumatra occidentale) - studiata in passato da vari antropologi e dalla Reeves nuovamente presa in esame (l’autrice ha vissuto parecchio tempo con loro) – che osserva la linea di discendenza matrilineare e che si autodefinisce matriarcale. In questa società il legame madre-bambino è sacro, parte della legge naturale. Esistono leader sia femminili che maschili nella vita pubblica e sociale, ma l’azione politica, in tutte le sue espressioni, ruota intorno a e si confronta con un sistema cerimoniale e rituale della vita ciclica, conservato e trasmesso dalle donne; insieme, uomini e donne mantengono l’ordine della tradizione contro le tremende spinte della modernità e della globalizzazione.

Gli studi su queste minoranze emarginate e minacciate, così come lo studio di società passate della nostra storia umana, sono un campo di studi aperto; nel 2003 si è tenuto nel Lussemburgo il 1° convegno internazionale di studi matriarcali, a settembre del 2005 ad Austin, nel Texas, si è tenuto il 2°, a cui hanno partecipato oltre a studiosi europei e statunitensi, rappresentanti indigeni, uomini e donne, delle società matriarcali. Il modello egualitario e pacifico che trasmettono queste società può fornire lenti attraverso cui vedere le culture pre-indoeuropeee dell’antica Europa, oltre a porci di fronte al compito di salvaguardare e rispettare queste minoranze. Non ultimo, esse ci suggeriscono possibili vie da percorrere in vista di forme di vita alternative alle nostre: una diversa socializzazione al di fuori delle norme patriarcali nel rispetto della forma dell’energia femminile con i suoi cicli e ritmi continui.

I nostri ruoli di genere sono attualmente in una grande fase di trasformazione: sapere che sono esistite e continuano a esistere società più bilanciate, sorrette da politiche pacifiche ed egualitarie, ispirate alla comunione della natura e dello spirito che celebrano la vita e non la morte, è una grande ricchezza per tutte noi. Possono far crescere la speranza e suggerirci una via di cambiamento.

Come fa notare Riane Eisler, è proprio in tempi di grande squilibrio sociale e tecnologico che la possibilità di cambiamento di struttura dei sistemi, della costruzione dei ruoli e dei modelli delle relazioni subiscono maggiori spostamenti. Forse, noi non sapremo mai dire esattamente quali sono stati i fattori che un tempo ci hanno portato a quell’altro spostamento, non sapremo forse mai dire se è stato un repentino cambiamento del clima, una glaciazione con conseguente inasprimento delle condizioni di vita dove la forza ha avuto il sopravvento, oppure un processo lento e inesorabile di degrado, o l’introduzione di nuove tecniche, o tutte queste cose insieme. Resta il fatto che da quel momento, su ogni aspetto della nostra esistenza ha prevalso l’oscuramento del principio femminile della vita, in tutte le sue possibili manifestazioni.

La maggior parte delle mitologie del mondo testimoniano di un conflitto ancestrale tra dei e dee o tra uomini e donne. Sorprende vedere quanto i racconti che si possono raccogliere in Africa, Oceania, o presso gli Indiani d’America rassomiglino a grande linee ai testi arcaici dell’area mediterranea. Da sole, le interpretazioni psicanalitiche non possono spiegare a fondo questa coincidenza. Del resto, è strano constatare come i rari esempi di società matriarcali pervenuti fino a noi non abbiano miti di contrapposizione uomo-donna nelle loro cosmogonie. Si può dunque supporre che quei racconti testimonino, a loro modo, un episodio storico antico e fondamentale. Gli esempi che si possono trovare in Nuova Guinea, in Africa, come in India, raccontano tutti, in forme sia pur diverse, la stessa storia: a un certo punto gli antenati maschili si sono impadroniti degli oggetti sacri scoperti dalle antenate femminili. Li hanno portati nella casa degli uomini e ne hanno impedito l’accesso alle donne, e dato che questi oggetti sacri rappresentano anche le insegne del potere, è ben comprensibile la portata di tali racconti. D’altra parte molte tradizioni convengono sul fatto che prima, in un tempo altro, le cose andavano diversamente. Ce lo raccontano gli antichi miti greci, l’età dell’oro di Esiodo, le leggende azteche e dei Maya (le poche rimaste), lo afferma il Tao te Ching di Lao Tse, ce lo ricorda la Bibbia col suo giardino dell’Eden.

Certo, l’indagine dell’universo dei miti e delle tradizioni non basta, sarebbe importante non trascurare le strutture sociali ed economiche… ma la verità è che si sa ben poco sulle prime strutture sociali degli esseri umani. Di certo il riconoscimento della parentela da parte di madre ha preceduto quella da parte di padre. Le prime forme stabili di organizzazione sociale erano dunque matrilineari: alcune donne unite da legami di parentela (madri, figlie, sorelle) costituivano il centro di questi gruppi, mentre gli uomini (figli e fratelli), presumibilmente si spostavano da un gruppo all’altro. Là dove vi erano le madri vi era anche il centro della struttura.

Gli studi antropologici contemporanei che hanno indagato le origini della subordinazione femminile all’interno delle prime comunità umane, utilizzando il metodo di analisi marxista - di certo molto poco di moda attualmente - hanno focalizzato l’attenzione sul ruolo della produzione svolto dalle donne e non solo su quello della riproduzione. E comunque su questi due categorie,  produzione e riproduzione, si dovrebbe sviluppare un discorso che interroghi le loro premesse e metta in luce la relazione dinamica tra i due processi .

Ma per tornare agli studi antropologici, esiste un’interessante ricerca collettiva, pluridisciplinare, condotta da diverse antropologhe (Nicole Chevillard, Sebastien Leconte, Stephanie Coontz, Lila Leibowitz ecc.) che approfittando della ricchezza delle ricerche etnologiche recenti e passate sulle società cosiddette claniche o di lignaggio sia in Africa che in America, e comparate alle società tradizionale ad economia di lignaggio del Terzo mondo, hanno costruito stimolanti ipotesi sulle prime società comunitarie. Vediamo che cosa ne è scaturito.

 

Contrariamente a quanto riteneva Engels, che nell’Origine della Famiglia sosteneva che l’oppressione delle donne è legata all’origine della proprietà privata, in queste società claniche ( i Nuer per esempio o gli Jivaro), fondate sulla parentela e che non conoscono la proprietà privata, le donne sono il gruppo più oppresso; su di loro ricade l’intera responsabilità del sostentamento, e con i loro compiti quotidiani, , fare il burro, macinare il miglio, piantare semi, sarchiare, raccogliere, mungere mucche e pecore, preparare i pasti, assicurano la sopravvivenza dell’intero gruppo. Tutto questo si potrebbe pensare che assicuri loro un ruolo sociale eminente, in realtà accade il contrario: l’importanza della loro responsabilità viene occultata e “i lavori da donne”, cioè tutto il lavoro produttivo, è disprezzato. Non sono padrone della distribuzione e neppure dell’organizzazione delle loro mansioni. Ma non è tutto: la superficie di un terreno coltivato dipende dalle donne che l’uomo possiede per poterlo coltivare; non a caso gli uomini preferiscono avere due o più donne. Queste sono costrette ad accettare tale situazione perché vige il principio dell’esogamia, i matrimoni  possono avvenire solo tra individui di lignaggi diversi e la regola è quella della patrilocalità, cioè la donna deve seguire la famiglia del marito, e inoltre non può godere della proprietà collettiva delle terre del lignaggio presso cui è nata, mentre all’uomo, al momento del matrimonio, viene affidato un terreno dagli anziani del gruppo. Gli uomini si occupano perlopiù di dissodare terreni, utilizzati poi dai quattro ai sei anni consecutivi, vanno a caccia, pescano, preparano feste e cerimonie, e, come notava Evans-Pritchard, per rompere la noia, fabbricano utensili, ornamenti, oppure… si pettinano. E naturalmente fanno la guerra ai clan rivali.

Ma non dobbiamo meravigliarci di queste società, perché il ruolo predominante delle donne nel lavoro di sussistenza si trova praticamente identico in tutti i paesi dell’Africa sub-sahariana e in tutti i sistemi tradizionali ad economia di lignaggio del Terzo mondo.

Gli organismi di aiuto a quei paesi hanno faticato molto a capire che i crediti all’agricoltura distribuiti agli uomini, e messi a punto per loro, non davano alcun frutto perché, di fatto, l’agricoltura non era precisamente praticata da loro ma dalle donne. D’altra parte i giuristi dell’Africa nera durante i congressi che si sono tenuti durante questi anni non trovano nulla di strano nell’usare il termine “capitale” o “capitale donna” per parlare delle donne delle loro famiglie. Bisogna quantomeno riconoscergli un’onestà di fondo: se le donne sono un bene strumentale, perché non chiamarle col loro nome? Le nostre società occidentali, molto più sofisticate e tortuose nei loro sviluppi, ma anche nell’escogitare appellativi, a un certo punto della loro storia si sono inventate, invece, “gli angeli del focolare”, nascondendoli progressivamente dentro le mura domestiche - dove comunque continuavano a svolgere un lavoro di sostentamento, naturalmente non riconosciuto – e li hanno chiamati fuori o quando c’era una forte necessità di manodopera - ovviamente retribuita con salari infimi e comunque sempre boicottata perché, dopotutto, questi angeli avrebbero potuto alla lunga, poi, rubare il lavoro agli uomini, basta vedere la storia del lavoro femminile nella fabbrica della seconda metà dell’800 ma anche quella dei nostri giorni - oppure, offrendo alle donne nei grandi momenti di crisi economica i lavori meno qualificati con retribuzioni bassissime, oppure, ancora, ed è storia di oggi, facendole impazzire, correndo da una parte all’altra della città per svolgere tre lavori part-time diversi in una giornata, la cui qualità è pressoché irrilevante, sperando che almeno uno diventi fisso.

Tra una donna del Gabon e una di Milano sembra scorrere un sottile filo retto da un’unica volontà sistematicamente intenzionata a manomettere un gruppo sociale, se così si può chiamare quello delle donne, imponendogli progressivamente le proprie leggi e integrandole nelle proprie strutture. Involontario? Casuale? Sarebbe interessante indagarlo vista la ricorrenza del fenomeno, nonostante la differenza di culture, sviluppi storici, e constateremo poi anche di epoche, perché come vedremo tra poco, non dev’essere andata tanto diversamente neanche allora. Anzi, proprio allora, quando molto probabilmente ebbe inizio il controllo della produzione del lavoro femminile.

 

Ma ora facciamo un balzo temporale, come ci insegna Mary Daly.

Sapevamo bene noi quali erano e come dovevano essere svolti i lavori perché tutta la comunità godesse di prosperità e serenità. Noi che dalla mattina alla sera non ci fermavamo un momento, ora perché dovevamo raccogliere quei frutti che la terra ancora una volta ci regalava, ora perché con quei frutti dovevamo preparare il cibo che avrebbe sfamato i nostri uomini e i nostri figli, e poi perché era tempo di preparare quelle bevande sacre che sapevamo fare soltanto noi, altrimenti quei riti che si dovevano svolgere all’equinozio, come avrebbero potuto avere l’esito dovuto? E poi c’era il granaio, il deposito comune… Erano le riserve che ci servivano per il nostro fabbisogno, erano la sopravvivenza della nostra comunità, per i momenti di carestia… Eppure anche così indaffarate eravamo felici, in perfetta sintonia coi nostri cicli e quelli della natura. Poi le cose sono cominciate a cambiare… Man mano che i nostri depositi si riempivano, alcuni uomini alleati con donne della nostra tribù permisero che esse si sposassero con uomini di altri lignaggi, cosicché le nostre comunità si allargassero e accumulassero maggiori ricchezze. La nostra discendenza si trasmetteva di madre in figlia, e avevamo sempre abitato presso le nostre madri, di conseguenza eravamo noi a gestire i magazzini, ad averne il controllo. Quello fu anche un periodo di grandi sconvolgimenti climatici a cui seguirono carestie, ci furono molte migrazioni; nelle nostre comunità arrivavano continuamente genti nuove. Avevano altre abitudini, veneravano altre divinità, avevano armi. Anche i nostri uomini cominciarono ad adottare quelle armi, e quei costumi e quelle divinità. Lentamente ma progressivamente presero il controllo dei nostri depositi e crearono nuove regole di parentela. Dovemmo lasciare le nostre madri e spostarci nelle famiglie degli uomini. Ci disperdemmo, e le eredità che le nostre madri un tempo ci lasciavano, finirono anche quelle nelle loro mani. Volevano accumulare sempre di più, dicevano che avevano paura degli assalti delle  altre tribù, perché come loro avevano armi, armi e armi. Ci facevano lavorare molto più di quanto ce ne fosse bisogno, ci portavano in guerra con loro perché li sostenessimo coi cibi e le bevande e con tutto quello che serviva. Ognuno di loro aveva due o più donne. Ci disperdemmo sempre di più, tra di noi si crearono rivalità, e smettemmo di preparare quelle bevande tanto speciali, e non facemmo più quei riti che in passato ci avevano dato forza, gioia, prosperità, armonia…

 

Altro balzo temporale e torniamo al presente. Questa favoletta vorrebbe illustrare quello che le studiose marxiste, che citavo prima, hanno definito come “accaparramento del controllo del surplus” e come vuole la regola, trasmettere una piccola morale: quando gli uomini si impossessano con la violenza delle risorse delle donne perdono di vista il benessere generale delle comunità. Poi evidentemente ce ne sono molte altre ancora e potreste essere proprio voi a trarle…

Ma per tradurre la favola in un discorso più articolato, vediamo che man mano che si sviluppa un livello di produzione più elevato e un surplus, le comunità codificano delle regole di parentela che permettono la formazione di gruppi umani sempre più ampi e stabili. Queste società formate sia sulla matrilocalità che sulla matrilinearità hanno il controllo della produzione e dell’eccedenza, la qual cosa ha finito per portare a scontri fra donne e uomini, probabilmente di gruppi parentali differenti, per accaparrarsene il controllo. Le migrazioni seguite ai probabili sconvolgimenti climatici hanno allargato sempre più queste comunità, portando nuovi usi e costumi, nonché armi. L’evoluzione naturale di queste società avrebbe dovuto avere come esito un certo grado di controllo femminile, il fatto che sia avvenuto il contrario si può spiegare solo attraverso una vittoria maschile ottenuta con la forza e con le armi, che instaurò il controllo della forza lavoro femminile con la relativa patrilocalità. Questo rovesciamento dell'antico sistema matrilocale diede vita a un nuovo modo di produzione basato sullo sfruttamento del lavoro femminile (le spose che arrivavano dall’esterno, la poligamia, la dispersione dell’eredità femminile e di quella delle donne), offrendo un più ampio potenziale di espansione alla produzione, superando il necessario livello di sussistenza quotidiano. Il fatto che la matrilinearità non scompaia immediatamente ma che si instauri la patrilocalità, che esistano cioè società matrilineari patrilocali, crea una contraddizione e una illogicità per poter pensare che siano comparse spontaneamente; sarebbero dunque prove di un’imposizione forzata. Tutto ciò porta le antropologhe a ipotizzare che una delle cause delle origini della dominazione maschile sia la lotta per il controllo e la gestione del lavoro delle donne e dei loro prodotti, avendo queste svolto innegabilmente un ruolo produttivo centrale nelle prime comunità umane.

Il controllo sul potere riproduttivo delle donne sarebbe scaturito come conseguenza. L’emergere molto più tardi dello stato, delle classi sociali e della proprietà privata si fonderebbe poi sulla prima forma di oppressione che la società conosca , quella femminile.

Queste teorie offrono interessanti spunti da cui partire per fare una seria analisi del lavoro femminile oggi. Certo, l’entrata delle donne nel mondo del lavoro ha significato un cambiamento profondo, possibilità e modi di essere inediti per il mondo femminile, le lotte per l’indipendenza economica, il diritto a salari più o meno adeguati sono state conquiste innegabili, ma senza nulla voler togliere a queste conquiste è pur vero che il processo di emancipazione economica femminile ha dovuto assimilarsi, nei modi e nei tempi, al modello lavorativo di una parzialità, quella maschile, che si è imposta come unico modello universale, neutro, oggettivo – modello di saper fare, saper dire – e che ha richiesto di essere riconfermato per verosimiglianza. Il prezzo pagato dalle donne per entrare nella macchina lavorativa è stato molto spesso un prezzo molto salato. Ha significato in molti casi rinunciare a pesi, misure, criteri consoni ai loro modelli di energia e pensiero.

Ne risulta che la storia del lavoro femminile è ben distinta dalla storia del lavoro maschile, pur avendo vissuto, di quando in quando, momenti di evoluzione parallela. Come fa notare Evelyne Sullerot, sia uomini che donne hanno conosciuto successivamente lo stesso stato di schiavitù, hanno vissuto l’epoca dell’artigianato, della borghesia mercantile, l’industrializzazione, le lotte operaie per il miglioramento per le condizioni di lavoro, di orario, di salario. Hanno vissuto il taylorismo e i metodi socialisti di pianificazione. Tuttavia, queste condivisioni non possono documentare a sufficienza le profonde differenze che sono sempre esistite ed esistono ancora fra il lavoro delle donne e quello degli uomini. Una delle questioni che hanno più interessato gli storici e gli studiosi, il lavoro umano, non è mai stato studiato in una visione d’insieme dal punto di vista femminile. Hanno iniziato a farlo le donne in questi ultimi trent’anni. Le donne sanno bene di non potersi sottrarre al lavoro, e mai potranno farlo, perché è una condizione del loro essere nel mondo, ne andrebbe della loro stessa possibilità di vivere su questo pianeta. Il lavoro femminile, cosiddetto di cura, resta per le nostre società nell’ordine della natura, un prolungamento delle qualità naturali delle donne, e solo quando si presenta in forme e condizioni che si avvicinano a quelle consuete degli uomini, la manifattura, la fabbrica, l’ufficio – il lavoro “fuori” per intenderci – allora si dice che una donna lavora. Certo che lavora, ma il doppio. C’è l’aggiunta del “naturale” lavoro quotidiano, dei figli, delle cure, delle attenzioni, delle relazioni, quello invisibile di sempre, quasi mai riconosciuto, perché “naturale”. Ma non c’è nessuna fatalità biologica in tutto questo, semmai dei precisi disegni sociali le cui origini sono molto lontane nel tempo. Non sarà giunto forse il momento di riconoscere questo lavoro di civiltà, di restituirgli riconoscenza, valutarne la dignità e il prestigio, la forza, la potenza e su quelle qualità porre le basi per pensare e agire in direzione di un altro presente e futuro?

Nella stanchezza generale e nel vuoto di senso che incombe su gran parte del mondo del lavoro oggi, anche quello degli uomini, questi si sono inventati la facile utopia della fine del lavoro e della liberazione dal lavoro; ma non bisogna dar loro molto credito, non sarà certo l’ipertecnologizzazione a liberarci, semmai rendere più vivibile ciò che ci circonda. E questo significa ridiscutere i modelli dei nostri sistemi economici mondiali malati, non portargli più assistenza, non sostenerli più. Guardare altrove, perché lì non c’è spazio per i nostri pensieri, la nostra libertà, quello che ci piace e sappiamo si deve fare, quello che fa la qualità della vita. La sacralità del lavoro, può essere tale solo se praticata secondo altri principi, che non siano quelli dell’accumulo e dell’accaparramento, ma quelli della condivisione. I depositi comuni delle nostre amiche della favoletta possono forse insegnarci qualcosa…

Le domande che ponevo allora all’inizio , che senso ha ricordare le cosmogonie prima del patriarcato, interrogare la storia dell’umanità, guardare alle società del passato, trovano la risposta essenzialmente in un unico verbo: esserci. Nella vita, nel mondo, nella storia e nelle molte dimensioni che sappiamo esistere. Essere non è un verbo statico, come ci ricorda Mary Daly, è un verbo transitivo, attivo, che non si contrappone a divenire, come ci hanno insegnato. Essere il divenire è molto meglio: vuol dire partecipare al tempo passato, il nostro individuale, quello di “quando avevamo cinque anni ed eravamo tutte filosofe”, ma anche a quello originario arcaico collettivo che continua a vivere nel retroscena. Se riusciamo a entrare in contatto con le nostre radici e a estenderle, possiamo fare un balzo in avanti, e da questa prospettiva vedere, nominare, agire. E’ attraverso la successione di tali atti che possiamo creare un futuro reale, ossia, un futuro arcaico. Accedere alla memoria profonda del tempo arcaico non è facile né difficile, basta solo sentire intuitivamente la verità delle nostre origini. Monique Wittig ci dice come fare:

“C’è stato un tempo in cui non eri schiava, ricordalo. Camminavi da sola, ridevi, ti facevi il bagno con la pancia nuda. Dici di non ricordare più niente di quel periodo, ricorda… Dici che non ci sono parole per descrivere quel tempo, dici che non esiste. Ma ricorda. Fai uno sforzo per ricordare. O, se non ci riesci, inventa.”

 

Testi di riferimento

 

Mary Daly, Quintessenza - Realizzare il futuro arcaico, Roma, Venexia, 2005

Nicole Chevillard- Sébastien Leconte, Lavoro delle donne potere degli uomini, Erre emme edizioni, 1996

Evelyne Sullerot, La donna e il lavoro, Bompiani, 1997

Luciana Percovich, Storie di creazione: immagini del sacro femminile, dispense Libera Università delle Donne, 2000.

 

Per le informazioni sui nuovi studi matriarcali: www.second-congress-matriarchal-studies.com.