Convegno “La rivoluzione possibile. Cura/Lavoro: piacere e responsabilità del vivere”

Milano18 febbraio 2012

Pensare la cura
intervento di Liliana Moro


Parlo in quanto partecipante al gruppo Donne e scrittura della Libera Università delle donne, che ha pubblicato Pensare la cura non parlo a nome del gruppo, però. Scusate se inizio con una precisazione, ma le precisazioni sono importanti in un argomento come quello di oggi che ha un estremo bisogno di evitare luoghi comuni e associazioni “spontanee”.

Ci tengo a dichiarare questo punto di partenza perché è un’esperienza, politica, che contiene aspetti importanti del tema di oggi.
Il primo : la realizzazione nei lavori del gruppo di un tipo particolare di cura, che non è certo il più ovvio : la cura di sé. Abbastanza presto ci siamo rese conto che ognuna di noi stava realizzando una pratica di cura di sé proprio partecipando al gruppo, ritagliandosi del tempo, attivando energie e concedendosi il piacere, forse il lusso, di pensare, pensare insieme, fare quella cosa strana che è tenere aperti gli spazi del pensiero. Un’operazione che esige determinazione e lucidità e che non è realizzabile se non nel confronto con altre, nel collettivo. Il pensiero non nasce nella solitudine.
Ma la cura di sé, che è certo un piacere, paradossalmente può costare fatica, perché non siamo allenate a farlo, a prenderci sul serio. A prendere sul serio il nostro pensiero.

Come ha scritto Laura Di Silvestro:

Devo dire che la cura di me nella mia vita non è stata qualcosa di raggiunto una volta per tutte. Ricorda piuttosto l’andamento delle maree, un andare avanti e indietro a seconda dei periodi della vita, delle condizioni generali e anche soggettive. Certo, una volta emersa a livello della coscienza, questa consapevolezza è rimasta viva a livello intellettuale, ma nella concretezza della vita quotidiana ha avuto un andamento, come dicevo, ciclico. Non sostengo per niente l’idea che la donna sia una specie di creatura angelica, una martire di carità, sempre pronta a sacrificarsi per gli altri, ma che più umanamente ogni tanto evitiamo di curarci di noi semplicemente perché può essere meno stressante vivere secondo un tran-tran fatto di piccole incombenze, costruito sui tempi degli altri. Aver cura di sé è anche faticoso, non solo entusiasmante, è un impegno personale di rigore, di rispetto verso se stesse, la propria storia, il proprio destino (che tra l’altro non è sempre chiaro).

Un secondo aspetto. Naturalmente il nostro è stato un pensare a partire da sé, dall’esperienza. Ci siamo raccontate le nostre esperienze di figlie che si occupano, o si sono occupate, di genitori anziani e anche le nostre vicende di madri e di nonne. E non abbiamo potuto fare a meno di ripensare il rapporto con le nostre madri. Il materno è un tema con cui bisogna fare i conti necessariamente quando si parla di cura, con tutto ciò che ne consegue in termini di ambivalenza. Ma sull’ambivalenza tornerò dopo, qui volevo ricordare come partendo da sé, ci siamo anche interrogate sul nostro futuro, non molto lontano ahimè, di anziane. L’alternativa tra badante e cosiddetta casa di riposo ci fa rabbrividire, è inaccettabile: bisogna trovare altre strade.

Come ha scritto Gabriella Buora:

Diverso e più difficile, certamente meno gratificante, il rapporto di cura nelle sue varie forme, con le persone molto anziane e spesso sofferenti. La loro situazione ci rimanda a una nostra futura condizione, una situazione di perdita di molte capacità e facoltà che ci fa paura ed è difficile da accettare con serenità. Dovrebbe essere, secondo me, un dovere sociale, individuale e collettivo, preoccuparsi e occuparsi delle persone anziane che possono avere bisogno di cura a livelli diversi, senza scaricarle automaticamente sulle spalle della famiglia (e quando non c’è?) e quindi delle donne. Spesso così si creano situazioni, specie in mancanza di denaro e quindi di aiuti, al limite della sopportabilità e si conta sulla presunta disponibilità infinita e spirito di sacrificio delle persone di sesso femminile. A loro si richiede, ancora una volta, che al primo posto sia la cura dell’ambito familiare. E’ un “amorevole” ricatto.

Nei nostri vissuti di cura è stato inevitabile trovare un impasto di fatica e soddisfazione, di obbligo e desiderio. Dove è difficile fare distinzioni precise. Un’ipotesi per districare il nodo tra lavoro e relazione è stata introdurre la distinzione tra accudimento e cura, ne abbiamo discusso a lungo, in realtà il nodo rimane. Io personalmente credo che non sia nemmeno giusto separare ma sia più sano essere consapevoli della compresenza dei due aspetti, di sentimento e manualità. Certo il fatto di non avere tutto il lavoro sulle proprie spalle, in solitudine, permette di prendersi cura di un malato, un anziano, un bambino con più serenità. Ma non si può pensare semplicemente di scaricare su altri, che poi sono ancora donne, una parte manuale, fastidiosa, e tenersi solo i sorrisi e le carezze. E poi il rapporto con le badanti e le colf va a sua volta curato, se vogliamo restare umani. O vogliamo tornare alla dialettica serva-padrona? Dovremmo avere qualche strumento in più delle nostre antenate.

Strumenti che ci permettano di guardare la cura diritto negli occhi. Questo è il terzo aspetto che voglio proporvi. Dedicare attenzione al tema della cura non per tornare a proporre il ruolo materno, il femminile oblativo, ma per cercare di districare l’ambivalenza che contiene tra servizio e potere: sentirsi indispensabili è molto gratificante, così come sentirsi dalla parte della vita vera.
Le donne per lo più non vogliono abbandonare i lavori di cura, l’attitudine al servizio perché ci siamo rese conto che la dedizione è un tratto identitario. Bisogna avere il coraggio di dirselo e cercare di capire come mai. C’è la questione del desiderio adattativo, senz’altro ma c’è anche dell’altro. Probabilmente ci sentiamo in fondo superiori agli uomini per questa (vera o presunta) capacità di sacrificio. E in nome di questo accettiamo di tutto. In casa e sul lavoro. E’ un problema che noi donne ci dobbiamo porre. Perché le donne sono così affezionate al ruolo di “salvatrici”? sognano l’onnipotenza e praticano l’impotenza? Certo è molto gratificante percepirsi come quelle che sono in grado di salvare la società degli uomini da se stessi, dalla catastrofe verso cui ci stanno portando. Ma siamo davvero convinte che le donne saprebbero fare di meglio? Molte cosiddette “donne di potere” ci pongono pressanti interrogativi.

Noi abbiamo visto una possibilità nel fare un rovesciamento: non rinunciare al valore della cura, che è poi attenzione al corpo, alla vita, alla molteplicità e complessità della vita. Ma nemmeno farci carico come donne di portare avanti questo nelle relazioni, nelle famiglie, sul lavoro, e invece rivendicare che tutti se ne facciano carico, che la cura diventi valore condiviso dagli uomini e affermato, realizzato concretamente nelle varie situazioni sociali, collettive, economiche, politiche. E scusate l'autocitazione, come ho scritto:

Se le donne rivendicassero la cura come valore culturale collettivo, invece di farsene carico privatamente nella pratica, sarebbe possibile toglierla dalla dicotomia di genere e rendere la sua positività una carica energetica valida per tutti, attivabile anche dagli uomini e dalla società. Proviamo a immaginare una società basata sul principio della cura: di sé, degli altri, dell’ambiente. Il bilancio della Difesa usato non per le armi ma per strumenti di locomozione per disabili, case sicure e per tutti, treni efficienti e confortevoli, strade e auto che non uccidono, produzione alimentare sana, agricoltura pulita. Un rapido elenco che mi è venuto in mente pensando diversamente al concetto di ‘difesa’, ancor più deviato di quello di ‘sicurezza’, la cui trasformazione in un problema militare è più recente ma non meno devastante.

E’ un progetto ambizioso e certo non si può fare se le donne non riconoscono loro per prime il valore culturale della loro esperienza, se non sanno dare il giusto valore politico al loro vissuto secolare.

Come ha scritto Ornella Bolzani:

le donne hanno imparato nel chiuso del recinto materno, una sapienza sottile ben diversa dal fragore delle guerre. Il limite delle mura domestiche ha spinto le donne a superarlo avviando un processo creativo sia sul piano fisico che mentale che ha richiesto intelligenza, tempo, perseveranza e fatica, tanta fatica. Più dell’atto della nascita, di questo fantomatico ‘potere generativo’, è di questa esperienza che dobbiamo essere fiere e liberarci da questa ‘essenza’ materna che ci inchioda ancora a un destino che ci sta stretto.

Ma bisogna puntare alto per cambiare un esistente così vischioso. Come diceva Agnese Seranis Piccirillo bisogna essere strabiche: con un occhio guardare in alto, le stelle, e con l’altro guardare a terra dove si mettono i piedi.

Le citazioni sono tratte da Pensare la cura, curare il pensiero. Confronto di esperienze, Lud edizioni, 2011

 

24-02-2012 aggiornato 7-03-2012

 

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