Uscire dal silenzio raccontando la storia

di Beatrice Busi


“Il femminismo è ancora in silenzio” era il titolo di un articolo pubblicato su Liberazione alla fine del 2004, nel quale Lea Melandri si domandava quanto il femminismo sia ancora una pratica di modificazione di sé e del mondo. Se “Usciamo dal silenzio” è la formula magica che il 14 gennaio scorso ha accompagnato più di 200 mila persone per le strade di Milano, quella domanda rimane ancora aperta: rappresenta precisamente la volontà di rilanciare delle donne, che in questi mesi sono fortemente tornate sulla scena pubblica come soggetto politico collettivo. Tante volte abbiamo detto e sentito dire che il femminismo è la rivoluzione più lunga e forse è vero se è bastato nominare il silenzio per interromperlo. Allo stesso modo sembra che sia bastato nominare il vuoto storiografico sul neofemminismo italiano perché lo si potesse cominciare a colmare. Un’altra domanda aperta alla quale sarebbe interessante rispondere è quali siano le continuità e quali le discontinuità tra il movimento di questi mesi e quello degli anni Settanta.

Qualche indicazione possiamo provare a rintracciarla negli atti della Scuola estiva della Società italiana delle storiche che si è tenuta a Firenze nel 2004 e che aveva per tema “La sfida del femminismo ai movimenti degli anni Settanta”. Da questo testo a molte voci di differenti generazioni, Il femminismo degli anni 70 a cura di Teresa Bertilotti e Anna Scattigno (Viella, pp. 256, euro 22,00) emerge con forza che la grande questione irrisolta del femminismo è il rapporto con le forme tradizionali della politica.

Ma se gli anni Settanta sono stati il momento più alto dell’invenzione e della potenza creativa femminista di cui la pratica dell’autocoscienza è un esempio paradigmatico, gli anni Ottanta e Novanta sono stati invece gli anni dell’“estraneità” e della “perdita della politica”. Il ripiegamento della ricerca sull’ordine simbolico e la chiusura dell’elaborazione nei luoghi separati hanno influito anche sulla capacità di trasmettere e rappresentare l’esperienza radicale del femminismo.

Lo pone molto chiaramente come problema Anna Rossi-Doria, mentre sottolinea il carattere diffuso e capillare della pratica politica femminista e la novità dell’evento che il movimento ha rappresentato: «Le elaborazioni femministe prevalenti in Italia negli anni Ottanta e Novanta, legate all’impostazione filosofica del “pensiero della differenza” che comportava un implicito rifiuto della storia, hanno costruito e trasmesso una visione paradossale per cui proprio il femminismo italiano che aveva avuto un carattere di massa superiore a quello di ogni altro paese, è stato rappresentato come un percorso teorico di piccoli gruppi o di singole pensatrici, sia pure grandi (Carla Lonzi su tutte)».

Rossi-Doria continua molto lucidamente individuando due peculiarità del neofemminismo tra loro connesse, sulle quali costruire ipotesi di ricerca storica: l’essere stato un fenomeno innanzitutto politico, non solo sociale e culturale, e l’aver posto l’accento sulla differenza più che sull’uguaglianza, declinando la lotta in termini di liberazione e non di emancipazione. Come ricorda Lea Melandri, «la sfida che il femminismo degli anni Settanta fa alla politica non è tanto una domanda di maggiore democrazia, libertà, uguaglianza - non si tratta solo di “allargare le maglie della città” - quanto la pretesa che le forme della politica, che si sono costruite in assenza della donna, cambino in profondità».

Nella letteratura per lo più sociologica che si è occupata del femminismo italiano degli anni Sessanta e Settanta, il periodo tra il 1975 e il 1977 viene spesso indicato come quello della svolta, allo stesso tempo apice e inizio della parabola discendente del movimento.

In effetti sono gli anni in cui quel rapporto problematico con la “politica” diviene vero e proprio conflitto. Da un lato, nelle elezioni politiche del 1976 il movimento delle donne, Udi compresa, decise di marcare nettamente la propria distanza dalla sinistra storica non esprimendo precise indicazioni di voto. Dall’altro, sono anche gli anni in cui si verifica una vera e propria “emorragia della partecipazione” delle donne ai gruppi della nuova sinistra, in particolare da quelli di matrice operaista. Se ne occupa Elena Petricola sottolineando l’estrema difficoltà di questi gruppi «nel fare fronte all’esigenza, sentita da molte militanti, di un’autoesclusione dalla politica tradizionale e dalle forme di potere esercitate all’interno dei gruppi misti, per affermare e costruire spazi per sole donne e portare all’interno delle organizzazioni un approccio meno strettamente e tradizionalmente maschile».

Secondo Liliana Ellena la sfida che il femminismo lanciò alla categoria stessa di politica e lo spostamento dei confini tra politico e personale, pubblico e privato, deve trovare un’espressione anche nel lavoro di interpretazione storica: «L’investimento della relazione tra donne di un significato direttamente politico si scontra spesso con i limiti di categorie derivate dall’analisi tradizionale dei movimenti sociali, in particolare ad esempio per quanto riguarda l’idea di militanza».

Al centro del rapporto politico tra le donne c’era il “corpo in concreto”, non solo i discorsi sul corpo, ma i corpi stessi: Luisa Passerini si rammarica che l’autorappresentazione del femminismo e la sua memoria che ancora fatica a farsi storia sia proprio sulla questione del corpo che spesso si è «espurgata ed edulcorata, mentre gli scritti danno come uno schiaffo in faccia, tanto sono forti ed esplosivi, ancora incandescenti». Un’incandescenza che già alla fine degli anni Settanta era diventata difficile da governare. Nel convegno nazionale che si svolse nel 1976 a Paestum emersero quei conflitti e quelle differenze tutte interne al movimento delle donne su come cercare e costruire una nuova identità. Conflitti e differenze che negli anni successivi porteranno alla chiusura del femminismo in se stesso, in un «alveo rassicurante» come lo definisce Emma Baeri, «che offriva trascendenza, affidamento e voglia di vincere».

Probabilmente in questo primo scorcio del terzo millennio il femminismo potrà tornare ad essere modificazione di sé e del mondo se saprà recuperare e risignificare la radicalità del materialismo corporeo esploso con e nel neofemminismo. Se vorrà liberare i corpi schiacciati tra i mutamenti antropologici imposti dalla tecnoscienza e le metafisiche dei nuovi fondamentalismi, falsamente opposte nello “scontro di civiltà” ma alleate nel tentativo di normalizzare e addomesticare la carica sovversiva dei soggetti che eccedono dalle logiche binarie ed oppositive. Se saprà prefigurare nuovi modelli di “convivenza globale” in opposizione al vangelo neoliberista del dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla donna, delle verità integraliste e delle morali univoche. Questa la nuova sfida che il femminismo si propone di lanciare alla “politica”. E non ci saranno più quote rose che tengano.



Il femminismo degli anni 70
a cura di Teresa Bertilotti e Anna Scattigno
Viella, 2006, pp. 256, euro 22,00

 

 questo articolo è apparso su Liberazione dell'8 marzo 2006