Una generazione “scollinante”

di Sconvegno


Milano, 14 gennaio 2006

 

Siamo sei ragazze sui 30 anni. Viviamo nel cuore della ricca padania, arrabattandoci tra contratti atipici, pagamenti intermittenti e relazioni precarie. Ad accomunarci è il collettivo femminista che abbiamo formato, lo “sconvegno”: per ciascuna di noi uno spazio/tempo che, da cinque anni, ci ritagliamo a fatica nelle nostre giornate frenetiche.

Un luogo dove piacere e politica vanno di pari passo, un laboratorio in cui - in un disequilibrio acrobatico tra dimensione individuale e collettiva - proviamo ad elaborare nuovi strumenti di analisi e pratiche che ci permettono di decifrare e gestire meglio la complessa realtà che viviamo.

Sin da subito, la nostra attenzione si è focalizzata sul tema del lavoro, perché ci siamo rese conto di come esso costituisca il perno attorno al quale ruota gran parte delle nostre vite. La metodologia che abbiamo scelto è quella della inchiesta/autoinchiesta politica: partendo dalle nostre personali esperienze, cerchiamo di individuare i nodi su cui riteniamo significativo confrontarci tra di noi e con altre/i.

Siamo perfettamente coscienti di essere espressione di un punto di vista parziale: le nostre riflessioni non pretendono di essere rappresentative delle “giovani donne al lavoro oggi”. Rivendichiamo questa parzialità, ma pensiamo anche che la nostra esperienza possa dare delle chiavi di lettura significative della realtà in mutamento.

Chi, come noi, ha emesso i suoi primi vagiti all’inizio degli anni ’70, fa parte di una generazione che definiamo “scollinante”: figlie dei baby-boomers - destinate, in teoria, ad un welfare dalla culla alla pensione - nella pratica, siamo entrate sin da subito in un mercato del lavoro atipico e ci siamo ritrovate a fare i conti con un’esistenza quasi interamente precaria.

Cresciute nel crinale tra fordismo e post- fordismo, rappresentiamo una “soglia”, una sorta di individue in via di estinzione. Da un lato non siamo ancora assuefatte alle “novità” e forse possediamo gli anticorpi che ci permettono di non dare per scontato e inevitabile lo stato di cose esistente. Dall’altro, avendo un’esperienza di lavoro e di vita quasi esclusivamente precaria, abbiamo la capacità di decodificarne alcuni segnali e di cavalcarne le ambivalenze, riconoscendone anche gli elementi agiti ed eccedenti.

Approfittando di questo particolare punto di osservazione è possibile, secondo noi, aprire spazi di trasformazione dell’esistente. Prima di rimanere schiacciate tra l’incudine e il martello, la domanda è: nell’incertezza che viviamo quotidianamente, come possiamo immagin(attiv)arci per trovare delle modalità di vita e lavoro nuove e, auspicabilmente, sostenibili? 

Nel discorso pubblico sul tema della precarietà/flessibilità, sembra difficile andare oltre la contrapposizione che vede da una parte il totem del lavoro fisso “da qui alla pensione” e dall’altra la precarietà nelle due varianti: come lo spettro della totale assenza di tutele e diritti, o come la favola della possibilità di scegliersi in autonomia i tempi, i modi e i contenuti del proprio lavoro. Di fronte a grandi e complesse trasformazioni, continuiamo di fatto a leggere la realtà attraverso categorie rigide e contrappositive, che faticano a rappresentare il mutamento.

La portata esplicativa di prospettive rigidamente dualistiche - fordismo/ postfordismo, lavoro tipico/ atipico, autonomo/subordinato - si rivela spesso insufficiente, tanto a livello epistemologico quanto a livello politico. Le nostre esperienze ci dicono invece che le cose sono molto più complicate e intrecciate tra loro in modo contraddittorio.

Lo strumento dell’autoinchiesta ci ha permesso di analizzare la parte del disagio che caratterizza necessariamente la condizione di precarietà, ma anche di interrogare e indagare le potenzialità creative e sovversive delle esistenze precarie; di identificare le discontinuità in atto, tenendo contemporaneamente conto dei molti elementi di continuità.

Ciò che vediamo intorno a noi è una molteplicità di tentativi di trasformare e risignificare le relazioni politiche, lavorative, affettive e sociali in cui siamo immerse, attraverso diverse pratiche e comportamenti sia individuali sia collettivi. Per certi versi, infatti, è proprio l’estensione della precarietà nella vita a 360 gradi ad obbligarci a inventare nuovi terreni di sperimentazione: nella condivisione degli spazi abitativi (per necessità, ma anche per desiderio di differenti forme di condivisione); nella ridefinizione delle relazioni d’amore (alla ricerca di nuove forme di intimità e scambio che non pretendano ruoli precostituiti); nelle forme di consumo (perché i soldi sono pochi, ma anche per la consapevolezza che come e dove spenderli ha effetti politici); nella creazione di inedite relazioni di fiducia e cooperazione (centrali nella costruzione di reti di alleanze, dentro e fuori il posto di lavoro).

Questo frammentario arcipelago di pratiche esiste e apre spazi a nuove forme di libertà e autodeterminazione; ma rischia di rimanere limitato alla sfera individuale, di non essere visto, né percepito nella sua valenza politica. D’altra parte e contemporaneamente, nonostante lavoriamo anche dodici ore al giorno (a casa, sul treno, nei diversi posti di lavoro: tanto bastano pc e cellulare!) nella nostra quotidiana lotta tra la scadenza delle bollette (implacabilmente rigida) e la retribuzione (variabilmente flessibile), quando bisogna dare garanzie per il mutuo della casa, o per non finire in rosso sul bancoposta, non ci resta che andare ad erodere le riserve accumulate nei pochi anni in cui lo stato sociale ha funzionato nel nostro Paese e chiedere aiuto a mamma& papà (e naturalmente solo per chi se lo può permettere).

“Eterne adolescenti”, forzate del trasloco, addicted del truciolato Ikea… Ecco allora che si fa strada la tentazione del «si stava meglio quando si stava peggio»: quando c’era il posto fisso, il cartellino, il matrimonio a 22 anni, i figli a 24, la pensione a 60; quando i ruoli familiari erano chiari, e chiaramente distinti i confini tra tempi di vita e tempi di lavoro…

Ma siamo poi così sicure che sia questo quello che ci piacerebbe? Forse rompere con un immaginario anacronistico e dicotomico può costituire un primo e fondamentale passo per non assumere una posizione nostalgica o vittimista, senza per questo dover dire che allora “va bene così”, che è questo ciò che vogliamo.

Per iniziare occorre allora guardare, ascoltare e narrare le ambivalenze che ci viviamo e iniziare a legittimarci a partire dalle nostre esistenze precarie. Legittimarci significa innanzitutto nominarci come precarie, individuare e apprezzare (quando c’è) anche il godimento precario; rivendicare nuovi desideri, che magari non sono il “posto fisso”, ma nemmeno l’accettazione passiva di condizioni di lavoro che non ci permettono di pagare l’affitto; riconoscerci adulte anche se non attraversiamo i classici e tradizionali passaggi che segnano la transizione all’età adulta.

Legittimarci significa riconoscere dignità e desiderabilità ad una vita che si presenta come un quadro incompleto, in itinere, non già preordinata in alcun modo. Legittimarci significa immaginare e rivendicare un altro orizzonte di senso nelle nostre esistenze precarie per riattivare innanzitutto la consapevolezza e il protagonismo dei soggetti.

Perché se è vero che le scelte sono vincolate dai contesti, sono le soggettività le uniche a poter rispondere, essere attive, eccedere, trasformare.

 

Sconvegno è composto da
Manuela Galetto, Chiara Lasala, Sveva Magaraggia, Chiara Martucci, Elisabetta Onori e Francesca Pozzi

 

questo articolo è apparso in Queer inserto di Liberazione del 15 ottobre 2006