Femminismo e differenza discutiamone seriamente

di La Redazione dei quaderni viola


Marianne von Werefkin



L'articolo di Monica Lanfranco e la risposta di Imma Barbarossa dovrebbero suscitare un primo, spontaneo commento: "Peccato! " E il peccato è che nel femminismo italiano non si sia mai riuscite a fare una discussione seria sulla differenza. Aprirla ora sarebbe per tempestività e attualità simile a certi interrogativi sulla compatibilità tra femminismo e lotta di classe oppure su ciò che in Unione Sovietica non ha funzionato. Tuttavia, sia pure oltre ogni plausibile tempo massimo, qualche osservazione potrebbe pure essere fatta.

La differenza non è necessariamente un paradigma politico di destra estrema. Se il soggetto che la rivendica è quello che in una relazione di potere si trova "sopra", certo alla destra più brutta si è assai vicini: la differenza della razza bianca, della civiltà occidentale, del pene-fallo, del Padano che paga per tutti ecc. Nella seconda parte del XX secolo hanno invece rivendicato la loro irriducibile alterità soprattutto soggetti che nella relazione di potere si trovavano "sotto": i movimenti di liberazione in Africa, le minoranze africano-americane, le femministe, le persone omosessuali ecc.

Assimilare un fenomeno all'altro sulla base di alcune analogie ideologiche sarebbe un'operazione non solo superficiale, ma politicamente assai rischiosa e il cui approdo alla fine potrebbe anche essere la giustificazione delle guerre delle democrazie occidentali, come una specie di replica della guerra contro il nazifascismo. In fondo l'integralismo islamico e la sua logica terrorista non sono altro che differenzialismi aggressivi e quindi per definizione di destra estrema.

La questione è che l'ideologia conta assai meno della posizione: il giudizio su un conflitto deve prima di tutto partire dalla posizione in cui ciascuno dei contendenti si trova. Ci sono prima di tutto gli aggressori e gli aggrediti, gli oppressori e gli oppressi, i colonizzatori e i colonizzati ecc. poi i linguaggi e le pratiche con cui ciascuno-a esprime le proprie ragioni e i propri torti.

Se questo criterio di giudizio resta fermo, poi sulla differenza altri discorsi sarebbero stati necessari e possibili. Ogni considerazione sulla posizione di ciascuno non cancella il fatto che la differenza è un paradigma regressivo e, quando viene adottato dai soggetti che stanno "sotto", rischia di diventare idealizzazione dei propri limiti, della propria posizione e del proprio ghetto.

Di solito l'affermarsi della differenza nei discorsi di un soggetto di liberazione è solo la metafora di un dato materiale, cioè del dato di fatto che un certo movimento ha una direzione per altri aspetti conservatrice. Nel femminismo italiano la differenza si è affermata come paradigma politico dalla metà degli anni Ottanta, quando un certo femminismo accademico cominciò a spostarsi verso destra sotto la pressione dei mutamenti della situazione internazionale e della crisi delle sinistre.

Naturalmente quel che si contesta non è che esista una "differenza di genere", anche se forse sarebbe meglio dire differenza sessuale e poi parlare di generi, che non sono necessariamente una proiezione culturale del sesso, per cui non esisterebbero che il genere femminile e il genere maschile. Al di là delle sottigliezze, è evidente che una cosa è assumere l'esistenza di una diversità e delle sue implicazioni sociali, culturali e politiche, altra cosa è farne una rivendicazione di alterità, parlare di "valore di tutte le differenze", utilizzare la differenza come paradigma politico.

Per intenderci, se diciamo che gli Italiani sono diversi dagli altri Europei, diciamo un'ovvietà a cui poi possiamo anche attribuire un significato politico; se invece adottiamo l'italianità come rivendicazione e paradigma entriamo nell'orizzonte ideologico del nazionalismo.

Non importa se la differenza a cui ci si riferisce sia essenziale (cioè legata al corpo), storica e culturale o politica. Regressivo per i soggetti di liberazione è il meccanismo per cui un soggetto di liberazione si costruisce valorizzando ciò in cui differisce dall'altro. Poiché ciò in cui differisce un soggetto subalterno spesso sono l'esclusione, l'eteronomia, la privazione di poteri ecc. il rischio è l'idealizzazione di uno stato di cose.

Il paradigma della differenza fu adottato dalle classi subalterne europee nelle fasi iniziali della loro comparsa sulla scena politica e si tradussero in idealizzazione della povertà come lasciapassare per il Regno dei Cieli. Inoltre la valorizzazione di ciò in cui si differisce, ciò che è esclusivamente nostro, si oppone alle contaminazioni virtuose, al meticciato, all'interculturalità e a tutto ciò che ha consentito la crescita della civiltà umane.

Sarebbe molto interessante analizzare come una ricostruzione consensuale dei ghetti per i/le migranti passi oggi ideologicamente attraverso la differenza e materialmente attraverso un'alleanza tra potere e settori conservatori delle migrazioni, a cui può dare poi il suo appoggio un radicalismo inconsapevole. La questione del velo va vista anche da questo angolo di visuale.

Una cosa infatti è dire che una legge contro il velo è sbagliata, altra cosa è dirlo nel quadro di una "valorizzazione di tutte le differenze".



 

questo articolo è apparso su Liberazione del 19 febbraio 2005