L’enigma della femminilità
di Lea Melandri

 


L’incontro col libro di Agnese Seranis, Smarrirsi in pensieri lunari (Graus Editore, Napoli 2007), non è stato facile e ancora adesso, dopo averlo percorso più volte, sottolineato, trascritto in frammenti che ricordo quasi a memoria, non posso rileggerlo senza che alcuni passaggi mi facciano sobbalzare. “Come può dire questo?”. Ma subito dopo mi correggo: “Come è riuscita a dire questo?”. Dopo aver elogiato per anni la capacità eccezionale che hanno le “scritture di esperienza” di portarsi vicino a tutto ciò che ancora resta “impresentabile” del rapporto tra i sessi, dei corpi, dei sentimenti, dei sogni, delle vicende essenziali di ogni vita, mi sorprendo se qualcuna di esse, più lucida o più folle, più saggia o più sfrontata, abbatte steccati, paure antiche, complicità inconsapevoli, decisa a non mentirsi su quel “femminile misterioso oscuro” che gli uomini hanno rappresentato nel vaso di Pandora.

Benché siano corsi fiumi di parole, immagini, ragionamenti, su cosa è o deve essere una donna, molto resta da dire sull’enigma della femminilità, se sono “pensieri lunari” ad aprire la strada di uno “svelamento”…Sogno, vaneggiamento, esplosione creativa, pensiero illuminato da una non comune consapevolezza di sé, il viaggio di Agnese negli annodamenti delle “mille immagini” su cui si è costruito storicamente il femminile, conferma la dolorosa discrepanza tra un’identità attribuita come ‘naturale’ e la percezione della propria inesistenza, tra una schiavitù che è andata confusa con l’amore e una libertà che si fa strada a fatica “aprendo sconnessure”, rischiando di “perdersi in brandelli prima di aver afferrato la trama di un nuovo essere”. Agnese, che ha avuto il privilegio di entrare nei luoghi di un sapere tradizionalmente maschile, come la fisica, anziché trarne una legittima conferma del proprio valore, si va a collocare nelle lande deserte da cui ha preso inizio e da cui potrebbe ricominciare il cammino dell’umanità, fuori dalla divisione originaria che ha contrapposto l’uomo e la donna, la cultura e la natura, il corpo e il pensiero, la casa e la città.

Svuotare la mente dai pensieri che si affannano senza speranza intorno al dissidio tra le figure del maschile e del femminile, viste come parti contrapposte e complementari di un intero, diventa condizione necessaria per immaginare un’ “alba nuova”, in cui torni a comporsi armoniosamente ciò che la storia ha separato e costretto a una guerra permanente. “Vegliare con la luna”, quando il mondo dorme, tornato “fanciullo inerme”, diventa l’osservatorio, lontano dalle vie maestre della ragione dominante, da cui esplorare le viscere imperscrutabili della civiltà dell’uomo, e riscoprire, nel medesimo tempo, i gesti di una antica felicità perduta…Se la discesa nel mondo onirico, che sfugge alla luce del sole, allinea con lucidità impietosa le figure di un tragico annodamento  -odio e tenerezza, violenza e amore, morte e vita-, quella che vorrebbe essere una risalita a paesaggi meno inquinati dalla furiosa onnipotenza maschile, l’approdo alla voce inascoltata della donna sapiens, sembra prendere ancora una volta la forma del più antico immaginario dell’uomo: la Grande Madre, alveo naturale di tutte le creature, gioco infinito di possibilità, energia in continua trasformazione.

Il capitolo con cui Agnese ha voluto chiudere la nuova edizione del suo libro dà al tumultuoso incontenibile monologo che lo precede una cornice, sia pure esile, di finzione narrativa: da un io indeterminato si passa alla terza persona  -“lei”-, dalle lande senza storia di una natura incontaminata a un interno di ospedale, da figure universali del maschile e femminile a quelle di ruoli famigliari noti. Nella scelta di allontanarsi dai luoghi che l’hanno tenuta prigioniera di desideri e pensieri di altri, facendola ammalare, è ancora la luna a guidare i passi della donna che ha deciso di ritrovare se stessa e parole proprie per rinominare il mondo. Ma le pareti asettiche della stanza in cui avviene il risveglio  - il bianco “immacolato pulito” dei mobili e delle coperte, della camicia, quel bianco che l’avvolge come le fasce di un neonato-  calano all’improvviso, quasi un ritorno di pudore, a ristabilire confini, cacciare i fantasmi della notte, disperdere le ombre della follia con la luce accecante del comune senso di realtà.

Insieme al disordine di ragionamenti e fantasie lasciati muovere in libertà, è come se si perdesse, con questo finale, anche la lucida visionarietà che raggiunge talvolta la “malattia del pensiero”, l’annaspare doloroso nelle pieghe dei comportamenti quotidiani inseguendo il “perturbante”, l’estraneo, il non abituale, che vi si annida e che quasi tutti preferirebbero restasse nascosto. Non è un caso che, nel saggio che porta questo nome, Freud faccia riferimento, volendo dare un esempio della sua scoperta, al corpo femminile: “ Questo perturbante (Unheimlich) è però l’accesso all’antica patria (Heimat) dell’uomo, al luogo in cui ognuno ha dimorato un tempo”…E’ intorno a questo luogo d’origine che si aggira la scrittura del tutto particolare di Agnese, fluente e ritmata, benché senza punteggiatura  -“le virgole non servono se uno legge intonato”-, convinta che sia stata la “scintilla di vita” in esso nascosta a imprimere all’amore la sua dolcezza e la sua terribile necessità  -“fare di due uno”, sovrapposizione del coito e della nascita-,  a spingere l’uomo, per la sua marginalità nel processo creativo, verso la costruzione di un mondo artificiale. “Ma chi eravamo noi? Chi ero mai io? Non eravamo il loro divertimento? E perché ci facevano tacere? Perché ci respingevano in confini controllati? Cosa c’era oltre la loro forza che ci vedeva testimoni consenzienti cosa ci imbrogliava?...Alice è perché noi siamo le loro madri ecco perché siamo le loro madri e le madri amano i loro figli. Oh cielo Alice è terribile: è dunque il nostro amore che dovremo uccidere?”

Sull’ambivalenza di pensieri e sentimenti, che si mescolano intorno al piacere fisico del congiungimento sessuale e alla gravidanza, poche scritture hanno saputo descrivere con tanta sapiente sincerità la dolorosa permanenza, nella vita delle donne, delle due figure dell’infanzia: la madre  -depositaria di un potere di vita e di morte, confusa per questo con le forze naturali-, e la figlia, costretta a fuggire acque materne ingrate, troppo simili per garantire il riconoscimento e il distacco necessario di una nascita. La maternità, vissuta ora come onnipotenza creatrice ora come  asservimento a una legge naturale, che non esita a fare del corpo femminile un “tronco vuoto, se ciò può essere necessario al nuovo germe”, consegna al rapporto sessuale con l’uomo un’esistenza femminile che ancora aspetta la sua rigenerazione, che ha bisogno di smarrirsi in un esterno divenuto parte del proprio essere per emergere alla vita -“come un affluente le sue acque nel fiume… in me… totalmente”.

 Con la lungimiranza e la capacità penetrativa che può venirle solo da una “acuta sensibilità nervosa” e da “sensi ancora meno definibili delle cose stesse”, la scrittura si avvicina a quelle profondità del vissuto, a quei sedimenti della memoria del corpo che richiedono un ascolto attento per non perdersi, per non restare inspiegati o tornare a seppellirsi fuori dalla coscienza. Nel vocabolario e nelle grammatiche con cui l’uomo ha definito il destino di entrambi i sessi, dato nomi e forme al mondo della comune abitazione, trovano posto sia il “grumo di pulsioni”, che rendono la donna complice della Vita, prigioniera di un amore materno che può diventare assoluto, autodistruttivo, sia la “fantasia immaginifica dell’uomo”, le figure delle Vergine e della seduttrice, della Madonna e di Lulù, divenute forzatamente le maschere interiorizzate dell’identità femminile.

Là dove si parla dell’”enigma” della femminilità  -il non essere e, al medesimo tempo, l’essere anche stata in qualche momento la “dolce compagna” dell’uomo, il suo momento di evasione, di riposo, nella quiete domestica, o, al contrario,  la caverna buia, l’humus brulicante di vita da cui tutti traggono alimento-, Agnese tocca il sottile crinale che sta tra la percezione di una individualità propria inespressa, e la tentazione di aderire a una rappresentazione del mondo inconsapevolmente “ammessa”.

“Mi sembrava di non donare nulla se non il mio corpo a cui essi davano forma a cui essi davano pensieri a cui essi prestavano immagini. Io l’avevo capito che essi volevano solo dialogare con se stessi o con un’altra inventata da loro stessi che non inquietasse che non proponesse una lettura diversa della vita…Mi stavo giocando la mia sanità mentale ché non era facile dire io non sono quella vergine io non sono quella dolce tua compagna perché in qualche modo nella mia vita lo ero anche stata. Come sciogliere questo enigma?”

Ma quella che resta, nei passaggi di intensa sofferta lucidità, un’esperienza colta nella sua irriducibile contraddizione, finisce in altri casi per cadere in un indistinto amalgama di realtà e sogno. Ciò che è stato appena visto come destino deciso da altri, identità immaginaria nemica dei corpi reali e della sessualità delle donne, viene impugnato come arma propria; allo stesso modo, l’offesa subita trapassa nella sfida, l’arroganza del potere maschile, appena messa a nudo, si eclissa per lasciare posto all’esaltata grandezza di un femminile-natura, cosmo, sostrato minerale…

Forse la risposta all’enigma che tiene le donne prigioniere, pur senza forzatura esterna, di sogni e desideri di altri, che le fa complici o testimoni silenziose delle violenze di cui l’uomo ha riempito la storia, sta in quell’intramontabile dualismo che ha opposto natura e cultura, biologia e storia, oggetto e soggetto della conoscenza…La tentazione di fermare la “macina” di pensieri indagatori, di sanare ferite sempre rinnovate nella guerra quotidiana tra i sessi, di sottrarsi al duello tra richiami opposti, sembra portare talvolta Agnese ad appagarsi di una ritrovata grandezza femminile, o a sperare in  una rinascita nell’armonia dei diversi. Ma il momento più intenso è là dove, rinunciando a facili traguardi o mete ideali, il desiderio femminile si espone in tutta la sua ambiguità, messo a nudo da una lucida intelligenza del profondo e da una scrittura originale, inedita e imprevista come Alice, la figura di donna che si fa strada dal diradarsi di una foresta millenaria di simboli e parole di altri.

Agnese Seranis,
Smarrirsi in pensieri lunari
Graus Editore, Napoli, 2007

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05/01/2008

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