Femminismo, ma quali colpe?
Analisi del saggio di Anna Bravo sugli anni Settanta

di Paola Di Cori


Marianne von Werefkin


E'poco elegante, quando si legge un testo da recensire, cominciare a elencarne subito i difetti e le mancanze. Chiedo quindi scusa se è proprio questa, ahimè, la tentazione che ho avuto leggendo l'ultimo numero di Genesis, rivista della Società Italiana delle Storiche, curato da Anna Bravo e Giovanna Fiume, e dedicato agli anni Settanta.

Nei giorni scorsi una intervista su Repubblica di Simonetta Fiori a Bravo - autrice del saggio principale di Genesis - Noi e la violenza. Trent'anni per pensarci - ha suscitato molti commenti. Miriam Mafai ha efficacemente replicato, e su Liberazione sono intervenute, con argomentazioni assai condivisibili, Lea Melandri e Maria Schiavo.

Il punto che ha provocato le reazioni più vivaci è quello che affronta il legame tra femminismo, violenza e aborto; in particolare la scarsa sensibilità che le donne avrebbero allora manifestato nei confronti del dolore del feto e la loro acquiescenza nei confronti della diffusa violenza presente nei gruppi politici della sinistra extra-parlamentare.

Dati i limiti dello spazio a disposizione, anziché inserirmi nel dibattito suscitato dall'intervista, preferisco commentare brevemente il fascicolo di Genesis, la cui parte monografica, oltre a quello di Bravo, è composta da altri tre contributi, rispettivamente di Paola Gaiotti De Biase (Cattoliche e cattolici di fronte all'aborto), di Elda Guerra (Femminismo/femminismi), di Emmanuel Betta e Enrica Cappussotti (L'epica dei movimenti tra storia e memoria).

Anticipo subito che chi volesse cercare analisi stimolanti sulle donne e su quel periodo è destinata a rimanere profondamente delusa. La sensazione generale di chi legge è quella di una cura distratta, scarsamente interessata a presentare il decennio e a interrogarsi sulla storia del femminismo, ma tesa a sottolineare soprattutto una tesi - la rimozione del tema violenza sviluppato da Bravo nel suo saggio. I quattro articoli della parte monografica appaiono slegati l'uno dall'altro, compagni occasionali di un viaggio dove ciascuno siede per conto proprio in un vagone separato. L'introduzione conferma questa impressione: poche pagine, di cui più della metà dedicate a sottolineare l'urgenza di affrontare il tema violenza; e per il resto, una rassegna un po' provinciale di qualche testo di interpretazione storica; nessuna ipotesi teorica sugli strumenti concettuali da utilizzare nel fare storia del femminismo e degli anni '70; nessuna indicazione né curiosità nei confronti degli importanti recenti sviluppi delle scienze storiche e sociali su questi problemi in contesti non italiani (mi riferisco in particolare alla Francia, tralasciando l'immenso patrimonio di ricerche esistente in lingua inglese, ma anche spagnola e tedesca, di cui non c'è quasi traccia).

Nonostante le intenzioni espresse nell'introduzione, l'idea del decennio che rimane dopo la lettura di Genesis, è assai poco problematica. Ma ben più grave, (e il contributo pur importante di Elda Guerra non può supplire alle carenze di fondo) è la scarsa valorizzazione dell'esperienza femminista, qualcosa che conviene esaminare soprattutto per le sue ambiguità, omissioni, rimozioni, "mancanza di immaginazione". Molto meno interessante, per le curatrici, è costruire una memoria in positivo del femminismo, affermare alcune acquisizioni, indicare gli immensi contributi di esperienze e di conoscenze, proporre obiettivi di ricerca avanzata, costruire nuove forme di relazionarsi con le generazioni più giovani.

Nel loro insieme questi saggi inducono alla malinconia (del resto è quasi ovvio, se si privilegiano temi come le sofferenze fetali, la violenza e la morte); comunicano incertezze e scarso entusiasmo per il proprio oggetto di studio, che rimane statico e poco definito. La storia del femminismo sembra sempre qualcosa ancora da fare, ancora da immaginare, ancora da cominciare a impostare: tale mancanza viene attribuita in massima parte al mai risolto nodo della violenza e dell'aborto. Oppresse dal senso di colpa per siffatta rimozione, in Italia le donne non sono state in grado di costruire una prospettiva storica scientificamente solida sul femminismo. Chissà come mai ci sono invece riuscite nel resto del mondo, per esempio nelle vicine Francia e Germania (le pubblicazioni recenti sulla storia del femminismo in questi due paesi riempiono ormai qualche scaffale, anche se Genesis le ignora!) dove la tradizione ugonotta e luterana deve pure aver acuito il peso della colpa per le brutalità inferte al feto e l'ambiguo silenzio di fronte alla ferocia del terrorismo. Ma forse oltralpe le donne sono ancora più insensibili delle italiane.

Non posso entrare in dettaglio nel merito dell'articolo di Bravo, che è lungo 40 pagine e occupa un terzo circa della parte monografica. Piuttosto, sono rimasta assai sorpresa per il tipo di ricostruzione proposta, da militante interna a Lotta Continua, un gruppo dove i temi della violenza erano all'ordine del giorno, come noto; ma soprattutto dove l'opportunità di denunciare collusioni e ambiguità non fu del tutto eluso, in particolare tra la fine del '77 e i due anni successivi. Di questo dibattito («lo sfondo è soprattutto torinese») tra aderenti a Lotta Continua, comprese molte donne, non c'è traccia nel testo di Bravo nonostante i principali interventi - a cominciare da quello di Andrea Casalegno che lo sollevò in una drammatica intervista all'indomani dell'attentato al padre nel novembre '77 - siano stati tutti pubblicati; cfr. Sulla violenza. Politica e terrorismo, Savelli, 1978; La violenza e la politica, Savelli, 1979; Vivere con il terrorismo, di Luigi Manconi, Mondadori, 1980. E poi, se è proprio questo che interessa sviluppare, perché non prendere in considerazione una ricerca assai seria e approfondita come quella di Isabelle Sommier (La violence politique et son deuil. L'aprés 68 en France et en Italie, Rennes, 1998)?

Inoltre, come mai Bravo non ha tenuto conto dei contributi delle femministe? Gli scritti di Ida Farè (Mara e le altre, Feltrinelli, 1977), il numero speciale di Differenze sulla politica, alcuni saggi di Luisa Passerini, qualcuno anche mio sulla soggettività in storia e sulle donne armate? Non è un po' troppo intimista la chiave prescelta? («quello che segue è un abbozzo fondato sui pochi testi in cui la questione della violenza affiora, su dialoghi con amiche di allora e di oggi, sulla mia memoria autobiografica…»). E a che scopo preferire l'intimismo a una indagine più solida, più documentata, o a un'articolazione teorica meno improvvisata, entro la quale recuperare almeno alcuni testi fondanti della prima metà del '900 (Benjamin sulla violenza, Simone Weil sulla guerra civile spagnola, tra altri), per inserirle all'interno di una lettura critica attuale su guerra e violenza, così come si sta facendo da più parti?

Gli anni '70 sono stati ben altro, e il femminismo un progetto di trasformazione entusiasmante e vitale; e quindi anche contraddittorio, irrisolto e inafferrabile. Non certo riducibile al quadro mortifero presentato da Genesis.

 

articolo apparso su Liberazione dell' 8 febbraio 2005