Noi donne precarie,
mamme se ci va
di Eleonora Cirant

Maria Venegas
«Se potessi avere a disposizione una sacca da mettere qui, che anche il
mio compagno possa portare, a turno! Oh, se lo farei!». Così diceva una
trentenne tra il serio e il faceto, durante una riunione in cui si parlava
di procreazione, artificiale e non. Si immaginava, gesticolando una forma
tonda dietro la spalla, questa "sacca di gestazione" nella quale poter
condurre la gravidanza, staccabile dal corpo, di cui condividere il peso
con il compagno (o la compagna). Non è indifferente il soggetto e il
contesto in cui questa fantasia prendeva corpo e parola. La donna in
questione è precaria, avviata su un percorso lavorativo che difficilmente
le permetterà di pensare alla maternità se non in termini di scelta
drastica: o mamma, o lavoratrice.
Il binomio si pone in forma di alternativa secca o comunque nei termini di
una difficile composizione per molte donne che si affacciano al periodo
della vita dai trenta ai quarant'anni, decade in cui, ci dicono, dobbiamo
fare praticamente "tutto": trovare lavoro, stabilizzare la nostra
professionalità, fare un figlio, metter su casa (perché, senza casa, dove
la mettiamo la bambina? Se il costo di una stanza in condivisione è pari a
metà o un terzo dello stipendio, come pagare un mutuo o un affitto?)
Questi i problemi pratici su cui si trova a meditare la donna giovane in
relazione alla maternità. Il controllo della fertilità attraverso la
contraccezione non è più, per molte di noi, il problema primario in
relazione alla funzione procreativa. Nell'arco di due generazioni di donne
la maternità ha cambiato posto nella vita di una donna - da obbligo a
scelta e possibile elemento di realizzazione della propria identità
femminile - modificando le stesse biografie.
Nel corpo e nell'immaginario sociale, invece, la maternità pare avere
sempre gli stessi connotati; i cambiamenti in atto hanno carattere
ambivalente e procedono con lentezza. Non ci si spiegherebbe, altrimenti,
la rigidità del mondo del lavoro nel respingere ai margini la donna-madre
(per contro le sono imposti ritmi produttivi "flessibili" e contratti a
termine). Siamo ancora molto lontane dal riconoscimento sociale
dell'importanza del lavoro di cura, di cui si considera "naturale", dunque
scontato l'orientamento al soddisfacimento dei bisogni altrui e agli
affetti (Sara Ongaro, Le donne
e la globalizzazione).
La precarietà su cui si prendono le misure di una possibile maternità non
è solo questione di sopravvivenza. E' anche un abito mentale connotato da
fluidità e difficoltà ad immaginarsi stabili e definite, forse anche ad
assumersi fino in fondo la responsabilità di una scelta i cui effetti non
si esauriscono nel breve periodo ma durano tutta la vita. Inoltre, molte
di noi non sono disposte a rinunciare all'autonomia economica, rinuncia
che molto frequentemente si verifica in presenza di gravidanza e
maternità, in assenza di reddito sufficiente e continuativo. Il fatto che
il reddito stabile sia sempre e ancora "quello di lui" non è indifferente
ai fini del nostro discorso. Insomma, la scelta di diventare madre è
sempre meno affidata al caso e sempre più oggetto di elucubrazioni mentali
(Marina Piazza, Le trentenni).
Le tecnologie procreative si inseriscono in questo scenario di vite
precarie e di desideri soppesati col bilancino. Non è un caso che l'età
della donne che ricorrono alla
Pma si concentri nella fascia dai 36 ai
39 anni.
Il femminismo, sia nella sua espressione teorica che in quella della
discussione e riflessione collettiva, si è posto la domanda se le
tecnologie riproduttive siano o meno uno strumento di liberazione
femminile. E' possibile articolare questo interrogativo su più piani.
Uno è stato appena descritto e riguarda la collocazione del desiderio
materno nel divenire dell'identità femminile. In questo senso, la
tecnologia rende possibile una scelta, forzando un processo che
spontaneamente si verifica, tanto quanto l'aborto - con segno opposto -
interviene ponendo termine a tale processo. Aborto e Pma sono, con segno
opposto, l'espressione di una volontà femminile circa la potenzialità di
diventare madre. Per questo l'espressione ufficiale della Chiesa cattolica
nega l'una e l'altra (il discorso sarebbe lungo; rimando all'articolo di
Lea Melandri, "L'antico
medicamento di una nuova ferita",).
Il parto non è un evento più "naturale" di altri eventi umani, poiché
nell'umano la "natura" è sempre mediata da strutture simboliche (Mila
Busoni, Genere, sesso, cultura), dunque da forme culturali. Per usare le
parole di Virginia Held, nascere non è più naturale che coltivare un campo
di grano (Etica femminista). La duplice faccia dell'esperienza umana tra
natura e cultura si manifesta, nel contemporaneo, anche nell'artifizio del
concepire in provetta, l'ultima e più recente tappa di un processo storico
che ha radici antiche.
Arriviamo così all'altro piano su cui articolare la domanda che ci siamo
poste, il tema della manipolazione e medicalizzazione del corpo. Non ci
mancano gli strumenti teorici per collocare storicamente e politicamente
la domanda di senso sulla propria potenzialità riproduttiva. Quel che le
donne della mia generazione faticano a trovare sono, piuttosto, momenti di
discussione a partire da sé, che attualmente si svolgono nella forma del
privato e stentano a divenire parola pubblica.
Eleonora Cirant è autrice del libro
"Non si gioca con la
vita.
Una posizione laica sulla procreazione assistita"
da pochi giorni in libreria
Sara Ongaro, "Le donne e la globalizzazione", Rubbettino, pp. 96, euro 6,
20
Marina Piazza, "Le trentenni", Mondadori, pp.176, euro 15
Mila Busoni, "Genere, sesso, cultura", Carocci, pp. 192, euro 17,00
questo articolo è apparso su
Liberazione del 15 maggio 2005
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