La Scienza delle donne
            
          intervista a Sara Sesti
        
         
        
         
        Donna e scienziata, studiosa, matematica e pure insegnante. Non si   scherza con Sara Sesti, perché tutto quello che fa parte della sua vita   professionale nasce da una passione e da un’ispirazione profonda che da   tempo coltiva e nutre con numerose e diverse esperienze. Ci racconta lei stessa   la sua esperienza all’interno del mondo scientifico, affascinante anche se a   volte ostile e chiuso. 
            
            Come è nata la passione per le materie   scientifiche? 
            
  «Mi sono laureata in matematica a metà degli anni Settanta   con l’obiettivo di insegnare. Mia madre è stata una maestra delle scuole   elementari molto appassionata del suo lavoro e mio padre progettava motori.   Evidentemente ho subito l’influenza di entrambi. Le difficoltà della matematica   per me erano una sfida e mi affascinava la generalizzazione dei concetti,   l’astrazione che implicavano. Ero orgogliosa di far parte dei pochi che la   padroneggiavano». 
          
          Quando ha iniziato a porsi domande di genere sulla   scienza? 
          
  «Ho cominciato a interrogarmi sul rapporto delle donne con la   scienza agli inizi degli anni Ottanta. Insegnavo in un corso delle 150 ore per   le casalinghe di Affori e in una sezione serale dell'Istituto Tecnico   Industriale Statale di Sesto San Giovanni, dove gli studenti erano operai. Ma   mentre alla scuola serale il mio sapere mi dava valore e gli studenti erano   interessati ad impadronirsi degli strumenti scientifici, diventava un ostacolo   nella comunicazione tra me e le donne, sia per la rigidità del linguaggio che   per la specificità dei contenuti. Le mie studentesse si sentivano come delle   immigrate: venivano dalle cucine, dalle camere da letto, e in campo scientifico   si scontravano con un mondo e con un linguaggio cui si sentivano del tutto   estranee. Per molte donne è ancora così e rifiutano il rapporto con la scienza». 
          
          Come è proseguita le sua ricerca su donne e scienza? 
          
  «Dopo   l’esperienza di insegnamento alle casalinghe, ho seguito con passione per anni   tutto quello che trattava di “donne e scienza”, interessandomi soprattutto alle   biografie delle studiose, fino a quando, alla fine degli anni Novanta, mi è   stata offerta dal Centro Eleusi - Pristem dell’Università Bocconi, l’opportunità   di concretizzare i miei studi attraverso una ricerca sull’argomento. L’indagine,   continuata all’Università delle Donne di Milano, ha prodotto tre risultati: la   mostra " Scienziate d’occidente. Due secoli di storia", il libro " Scienziate nel tempo. 65 biografie", che ho realizzato insieme alla storica Liliana Moro e la rassegna di film " Sguardi sulle donne di scienza"». 
          
          Cosa la affascina di più nella vita di queste grandi donne? 
          
  «Mi ha affascinato la loro capacità di affrontare la ricerca nonostante non   potessero ricevere un’istruzione adeguata: le porte delle università sono state   chiuse per le donne fino al 1867, quando finalmente l’École Politecnique di   Zurigo ha accettato l’iscrizione delle prime studentesse». 
          
          Quali   tratti hanno in comune queste scienziate? 
          
  «Prima dell’apertura delle   università, le donne che riuscivano ad affermarsi erano quasi sempre affiancate   da una figura maschile molto importante - un marito, un tutore, un padre o un   fratello - in grado di fornire loro l’istruzione che veniva negata dalle   istituzioni. Come le coppie formate da Ipazia e dal padre Teone, dall’astronoma   Caroline Herchel e dal fratello William, da Sofie e Tycho Brahe, o dai coniugi   Lavoisier, fondatori della chimica moderna. 
          Le donne di scienza hanno   mostrato un frequente interesse verso la divulgazione, che in epoche passate ha   indotto a realizzare traduzioni o a compilare manuali e che più recentemente si   esprime affiancando all'attività di ricerca l’impegno nella didattica. Ipazia di   Alessandria, matematica e filosofa dell’antichità, commentò col padre Teone le   opere di Diofanto, Apollonio, Tolomeo ed Euclide, la duchessa Margaret   Cavendish, dama di scienza autodidatta, nel Seicento scrisse numerose   pubblicazioni sulla filosofia naturale meccanicista, la marchesa du Châtelet nel   Settecento contribuì a divulgare le nuove teorie di Newton traducendone i   Principia, Mary Somerville nell’Ottocento tradusse e commentò tra l’altro la   Meccanica celeste di Laplace, Margherita Hack da 40 anni ci dedica la mediazione   del suo sapere specialistico, scrivendo libri di astrofisica che sono un esempio   di come si possa fare divulgazione di argomenti complessi rendendo le cose   semplici, senza banalizzare». 
          
          E per   quanto riguarda il lavoro di ricerca? 
            
            «Hanno in comune pazienza e   tenacia nel portare a termine ricerche che, prima dell'invenzione dei   calcolatori, richiedevano lunghissimi tempi in calcoli precisi e laboriosi o in   tecniche estenuanti. Ne sono un esempio i lavori delle équipe di sole donne che   infaticabilmente e per decenni hanno lavorato ai due più importanti cataloghi   stellari dell’800. In molte ricercatrici ho riscontrato anche una straordinaria   efficienza nella operatività pratica, che spesso si è tradotta nella vera e   propria invenzione e costruzione di nuovi strumenti, dal bagnomaria di Maria   l’Ebrea, la più importante alchimista dell’antichità, fino alle apparecchiature   accurate della fisica Chien-Shiung Wu, una delle scienziate del Progetto   Manhattan che negli anni Quaranta ha portato alla realizzazione della bomba   atomica». 
            
            Pazienza, tenacia, operatività pratica richiamano qualità   domestiche da sempre attribuite al femminile...
            
            «Però fanno risaltare, per   contrasto, la genialità e il ruolo eminente che altre scienziate hanno ricoperto   in diversi settori. Ricordo Emmy Noether fondatrice dell’Algebra moderna, Sonja   Kovalevskaja prima donna ad ottenere una cattedra in università nel 1889,   Rosalind Franklin che trovò le prove sperimentali della struttura a doppia elica   del DNA, Lise Meitner che per prima ha interpretato correttamente il fenomeno   della fissione nucleare o la Nobel Barbara McClintock che con le sue ricerche ha   rivoluzionato la genetica classica». 
            
            L'associazione Donne e Scienza   di cui fa parte vuole promuovere l'ingresso e la carriera delle donne nella   ricerca scientifica: secondo lei c'e' discriminazione? 
        «Sì certamente.   La discriminazione esiste ed è ben documentata dai dati mondiali. Oggi il   rapporto tra donne e scienza è senza dubbio migliorato, ma molto meno di quanto   si potrebbe pensare. Secondo il Rapporto Mondiale sulla Scienza elaborato   dall’Unesco nel 2006, le ragazze sono ormai la maggioranza a raggiungere un   diploma di scuola superiore (il 52%), ma la percentuale femminile si dimezza nei   corsi di laurea a indirizzo scientifico. Le donne sono solo il 27% dei   ricercatori e la scarsa presenza femminile ai vertici della ricerca è un dato   oggettivo. Più si sale nella gerarchia scientifica e più la percentuale delle   donne diminuisce. In Europa, per esempio, il 60% dei ricercatori in biologia è   di sesso femminile, ma di questa maggioranza appena il 6% emerge a dirigere i   laboratori che contano: è l'effetto “soffitto di cristallo”». 
                
                Quali   sono le motivazioni che impediscono alle donne di arrivare ad alti livelli? 
        «C’è chi ritiene che i motivi siano tutti interni alla scienza: la sua   struttura competitiva e la rigida organizzazione del lavoro indurrebbero le   donne a ritirarsi dalla carriera, o per una scarsa attitudine alla disputa o   perché penalizzate dal lavoro familiare. In molti casi, invece, le ricercatrici   vengono deliberatamente scoraggiate dal dedicarsi alla scienza attraverso   precariati più lunghi, paghe più misere e giudizi sprezzanti. Lo studio Figlie   di Minerva, coordinato da Daniela Palomba nel 2001, ha analizzato i meccanismi   di selezione interni alla ricerca in Italia e ha dimostrato che anche nel nostro   Paese le istituzioni scientifiche usano due pesi e due misure per valutare la   bravura femminile e maschile. E’ la conferma di un giudizio pubblicato sulla   rivista Nature nel ’97 da due ricercatrici svedesi, che dimostrarono che per   ottenere promozioni pari a quelle di un ricercatore, una ricercatrice deve   dimostrarsi “2,6 volte” più brava. E’ anche ben documentato come la corsa delle   donne spesso si arresti là dove inizia il principio di cooptazione maschile,   ossia la tendenza degli uomini ad affiancare a se stessi altri uomini nei ruoli   di potere». 
                
                Ha pubblicato due libri, " Donne di scienza. 50   biografìe dall'antichità al duemila" e " Scienziate nel tempo. 65   biografie". Ritiene che questi testi possano servire ad avvicinare i lettori,   e soprattutto le donne, alla scienza?
                 
          «Nei libri che ho scritto ho dato   conto degli esiti dei miei studi senza ambizioni letterarie, con lo scopo di   strappare dall’anonimato tante scienziate che non compaiono nei testi di storia.   Sono convinta che sia stato utile anche per avvicinare le persone, e soprattutto   le donne, alla scienza. Una disciplina vista attraverso la concretezza e la   profondità delle biografie assume connotazioni nuove, più vicine alla   sensibilità di chi legge, spesso poco incline all’astrazione e più curiosa di   esperienze complessive e di scelte morali. Ritengo inoltre che presentare   modelli positivi di figure femminili che si sono espresse nel lavoro scientifico   possa permettere alle ragazze di immaginare con maggior naturalezza e   disinvoltura una propria presenza nel mondo della scienza e della   tecnica».
         
        Pubblicata sul sito www.telegiornaliste.com 
        19 Agosto 2008