Donne, se contassimo di più

di Lea Melandri

 

“I movimenti di emancipazione e liberazione hanno portato alla conquista di diritti di cittadinanza, ma si sono bloccati nel passaggio all’esercizio pieno della decisione politica”. E’ una considerazione che si legge nel documento Di Nuovo. La nostra libertà  che il 2 luglio verrà discusso nel corso di un evento teatrale politico a Roma, e che è stato sottoscritto da “donne diverse per età, professione e opzione politica, benché orientate a sinistra”. Non è la prima volta che viene mossa al femminismo italiano la critica di non essersi voluto misurare con le istituzioni o con quello che Alessandra Bocchetti su L’Unità ( 8.06.10) chiama “il governo della società”. Non c’è da meravigliarsi se oggi sono tante e diverse le associazioni, i gruppi, le singole, a rimarcare lo scarto “tra l’energia, l’impegno di molte donne e la misoginia imperante” che le tiene ai margini dello sviluppo civile e politico. La presenza e la forza femminile nella vita pubblica sono andate crescendo, ma senza una visibilità e incidenza adeguate.

L’ondata di sdegno mossa da vicende che hanno portato allo scoperto lo scambio sesso-denaro e carriere  -implicate le maggiori cariche dello Stato-, dopo aver tenuto per quasi un anno la scena mediatica, sembra essere scomparsa, assorbita dentro il moto più generale di opposizione al governo Berlusconi. Perdura invece, nell’indifferenza delle forze politiche sia di destra che di sinistra, una rappresentazione del corpo femminile che, oltre ad offendere la dignità delle donne, ne nasconde la crescita personale e culturale. Ma cosa si intende quando si parla di “esercizio della responsabilità politica” o di “politica delle donne”? I riferimenti cominciano a farsi abbastanza espliciti e nel complesso unanimi: è mancata la capacità di affrontare come forza femminile organizzata la rappresentanza negli organismi sociali e nelle istituzioni politiche, la voglia di “battersi per una parità capace di evolversi in democrazia paritaria e in cittadinanza di genere” ( L’Unità , 11.06.10). Dell’inganno e delle contraddizioni di una parità che viene fatta valere solo in negativo, come nel caso dell’innalzamento della pensione delle dipendenti statali a 65 anni, hanno scritto in questi giorni anche il Corriere della sera e Il sole 24 ore. Si tratta di critiche e proposte che, pur restando dentro un’ottica essenzialmente economica, parlano una lingua non molto diversa da quella delle associazioni che denunciano lo “spreco sociale” conseguente all’esclusione delle donne.

“Donne motore per lo sviluppo” è anche il tema della XXII Edizione del Premio Marisa Bellisario.
“Le donne –scrive la  presidente Lella Golfo- rappresentano la carta vincente per la ripresa, senza il loro contributo l’Italia non potrà tornare a crescere e ad essere competitiva sui mercati internazionali”. Per questa “quieta rivoluzione”, come la definisce l’Economist, servono doti femminili come la flessibilità, le capacità relazionali, la concretezza, la minore propensione al rischio, ma sono necessarie anche “misure cogenti”, come le quote rosa e tutti quegli interventi che possono alleviare il carico di lavoro e di responsabilità legate al ruolo familiare delle donne (asili, doposcuola, part-time, detassazione del reddito femminile). Riconosciute almeno a parole per il loro “valore sociale”, la maternità e la conservazione della vita, con tutto il carico di lavoro domestico che le accompagna, confermano comunque la ‘naturale’ funzione della donna, moglie e madre.

A questo punto sembra chiaro che si sta parlando di un paese che sconta, rispetto al resto d’Europa, una condizione di fragilità e arretratezza, che al centro c’è una “questione femminile” irrisolta, uno svantaggio da colmare, dalla piena occupazione alla cittadinanza femminile vista come complemento indispensabile di un sistema che ha nell’economia il suo asse portante. Non è un caso che i termini più usati sono: “risorsa”, “fattore innovativo”, “valore aggiunto”. Sull’orizzonte del prossimo trentennio, per essere ottimisti, aleggia come un miraggio l’esempio dei Paesi scandinavi:
una cittadinanza riuscita che non sembra tuttavia aver scalfito né la preminenza del potere decisionale maschile né le identità di genere.
Verrebbe da dire “la differenza è salva”, il femminile pensato nella sua omogeneità di “genere” non ha più bisogno di assimilarsi al neutro, cioè di maschilizzarsi, perché finalmente può essere riconosciuto e valorizzato come tale, sia come femminile erotico, merce preziosa per il mercato, sia come femminile materno, “valore aggiunto” della nuova economia. Se la svolta verso un’emancipazione che nelle condizioni di decadimento democratico e culturale del nostro paese diventa quasi augurabile, non per questo si possono ignorare le contraddizioni a cui va incontro.

Nel 1967, prima ancora che la pratica dell’autocoscienza spingesse la politica ad affrontare le “acque insondate della persona” (Rossanda), una materia segreta che sta tra inconscio e coscienza,  all’origine del rapporto di potere tra i sessi, il gruppo Demau scriveva:
“Integrazione significa immettere la donna nella società così com’è, cioè una società di tradizione decisionale maschile, con degli accorgimenti che, non eliminando per questo l’inconciliabilità di due ruoli prefissati, ne permettono la coesistenza nelle sole donne.”

A distanza di oltre trent’anni, l’intuizione radicale del neofemminismo  -partire da sé per modificare il mondo- ritorna nelle parole con cui Maria Luisa Boccia descrive che cosa ha significato il “pensare differentemente” di una inedita coscienza femminile, e in che cosa si distingua dalle politiche che fanno della “differenza” o delle identità di genere la struttura portante dell’ingresso delle donne nella polis.
“Le strategie di inclusione perseguono un allargamento ad altre figure ma non pongono in questione l’ordinamento esistente, il gruppo escluso rivendica si partecipare a una partita già iniziata, le cui regole sono fissate e il contesto è definito…costrette a servirsi del loro ruolo famigliare come fonte e opportunità di diritto, le donne non possono evitare che questo ruolo si traduca in una condizione di esclusione e marginalizzazione. L’emancipazione ha rafforzato la categoria di genere, dotando di rilevanza e dignità politica un insieme di contenuti psicologici, sociali, culturali, presupposti comuni a tutte le donne. E’ sul concetto di cura che fanno leva i progetti volti a coniugare uguaglianza e differenza…l’estensione alla sfera pubblica dell’etica della relazionalità sarebbe l’apporto, di per sé riformatore, della partecipazione femminile alle istituzioni”. (Maria Luisa Boccia, La differenza politica, Il Saggiatore 2002)

Heleni Varikas, citata da Boccia, è ancora più esplicita nell’indicare il paradosso di un nuovo “patto sociale” che si avvale degli stessi presupposti che sono all’origine dell’asimmetria di potere tra i sessi: l’ “individualità” del maschio, la “naturalità” della femmina. L’inganno della complementarità, smascherato nel privato, ritorna indisturbato nella sfera pubblica e chiude in un cerchio senza uscita i due poli –maschile e femminile, uguaglianza e differenza- creati dalla comunità storica degli uomini come esito della scissione astratta tra corpo e pensiero, famiglia e Stato. Le donne sono state escluse collettivamente dalla polis a causa della loro differenza biologica, “si può costruire una cittadinanza  -si chiede Varikas- su una norma di femminilità positivamente richiesta dalla donne e alla quale tutte dovrebbero conformarsi?” L’idea di fondo è che possa e debba essere governata dai due sessi, ciascuno dotato di qualità e apporti specifici, che si realizza nella comunione di interessi. Non c’è dunque correlazione diretta, conclude Boccia, tra la presenza delle donne, anche in ruoli di potere e un cambiamento qualitativo della politica. Per mettere a fuoco l’asimmetria tra i sessi nella sfera pubblica “bisogna partire da un interrogativo radicale: come viene costruito il politico, chi ha il potere di decidere che cosa è politica, che cosa non lo è? Si può sfuggire alla schizofrenia del duplice imperativo dell’uguaglianza e/o dell’identità di genere, se si muove dal presupposto che il modello democratico li prevede entrambi.”

Preoccuparsi dei “paradossi della cittadinanza compiuta” in un paese dove manca ancora un qualsiasi riconoscimento dell’autonomia delle donne, confusa con gli interessi della famiglia, dove la violazione dei loro corpi fino a tempi non lontani era considerata offesa alla morale pubblica, dove la rappresentazione dominante, purtroppo assecondata dalle donne stesse, è quella di corpi in vendita, scambiabili come un qualsiasi oggetto di consumo, può far sorridere. Eppure è importante tenerne conto, cominciare a costruire, partendo dall’esperienza delle donne che si muovono in ambiti istituzionali, gli elementi primi del “pensare differente”, consapevoli che non c’è “politica amica delle donne” che possa farle passare da corpo-oggetto di poteri, interessi altrui a soggetti incarnati, con somiglianze e diversità dall’altro sesso ancora da scoprire, fuori da astratte contrapposizioni e complementarità. Nel pieno di processi evidenti di cancellazione dei confini tra privato e pubblico, famiglia e società, natura e cultura, restare ancorate alle “differenze” che hanno modellato separazioni e compiti di una sfera e dell’altra, gerarchie e rapporti di potere tra uomini e donne, significa consegnarsi alla subalternità, ridare linfa agli stereotipi consumati che hanno permesso finora di considerare metà del genere umano alla stregua di una qualsiasi “minoranza” da assimilare o da proteggere nei suoi irriducibili tratti identitari.

La richiesta di azione sociale e politica che viene dalle molteplici diffuse realtà del mondo femminile impegnato ha bisogno, pur rispettando la fisionomia e la storia di ciascun gruppo, di trovare momenti di condivisione e di accomunamento, una forza collettiva capace di imporsi e aprire conflitti anziché attendere  riconoscimenti o concessioni. E’ importante che in questa “ripresa” di movimento, di cui sentiamo la necessità, “di nuovo” non significhi la replica cieca di vecchie dicotomie  -emancipazione/liberazione, riformismo/rivoluzione- ma un ricominciamento aperto a nuove soluzioni,  l’incontro di saperi e mutamenti già avvenuti con quanto di imprevisto e di sconosciuto viene dai passaggi generazionali e dalle trasformazioni in atto nel mondo in cui viviamo.

 

da Queer in Gli altri del 2 luglio 2010

 

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