I consultori, conquista e privazione

di Maddalena Gasparini


“Non c’è intervento medico o chirurgico che sia frequente quanto il parto o l’aborto, eppure noi siamo costrette a partorire e ad abortire in modo barbarico. Se ci sono malati a cui non solo si dà del tu ma che vengono offese, queste sono le donne. Se ci sono malattie che non vengono prese in considerazione non solo a livello di cura ma anche a livello di ricerca, queste sono le nostre malattie” così scrivevamo nel 1975 su Le operaie della casa.

Se il corpo, la sessualità erano il “nodo problematico incontrato sulla strada della liberazione” nei gruppi di autocoscienza, il trattamento ad esso riservato rinviava a una pratica medica che riproduceva l’oppressione quando non la violenza maschile o, nel migliore dei casi, “un paternalismo che è misura del razzismo nei nostri confronti”.

E’ dall’incontro fecondo fra una coscienza dolorosa e agguerrita del nostro corpo e la denuncia della materialità che accomuna le donne oltre l’appartenenza di classe dei loro uomini, che nascono le prime testimonianze rese pubblicamente (“Basta tacere” era il titolo di un opuscolo pubblicato a Ferrara nel 1972), le lotte dentro e contro gli ospedali (a Ferrara, Padova, Udine…) e l’esperienza dei primi consultori autogestiti e dei centri per la medicina e/o la salute delle donne.
La presa di parola si saldava così all’urgenza del cambiamento, dentro un percorso in divenire il cui approdo era ignoto a noi stesse.
“Non si trattò di un progetto politico studiato a tavolino –scrive infatti Luciana Percovich- ma di un insieme di pratiche che andavano dal self help alla pubblicazione di materiale informativo, dall’apertura di centri autogestiti a gruppi che praticavano l’aborto in clandestinità”.
Quando nel 1975 venne promulgata la legge 405 che istituiva i consultori pubblici e nel giro di pochi anni approvate le leggi regionali, che li attivavano, sembrò che si volesse sottrarre alle donne una pratica che approdava a una conoscenza di sé impensata da una casta medica ancora saldamente in mani maschili e in contrasto col perbenismo un po’ bigotto che accomunava la Chiesa e la tradizione politica della sinistra, che aveva sempre evitato di guardare alle vite private, di cui le donne erano insieme prigioniere e custodi.

Il rapporto fra il movimento femminista e la rete dei consultori pubblici non fu facile: a Roma e Torino furono occupati degli ospedali per dar conto pubblicamente delle esperienze autogestite; a Milano “la relazione fra l’esperienza realizzata nell’autogestione e la pratica istituzionale –ha detto Ida Finzi in occasione del convegno Percorsi del femminismo milanese a confronto - è stata a una sola direzione: sono state solo le operatrici del pubblico che si sono ispirate al percorso compiuto nei centri autogestiti… nulla è stato fatto da parte del movimento per monitorare e accompagnare l’avvio dei servizi pubblici”.

Del resto anche la pratica del self help, quella pratica dello sguardo reciproco sui corpi di cui tanto si parlava, imbarazzava più d’una femminista, e non mancava chi criticava apertamente il ruolo di “servizio” che i centri svolgevano a fianco del lavoro di presa di coscienza, rinviando al servizio pubblico la risposta ai bisogni di un corpo che iniziava a dar voce al proprio desiderio.
Premesse condivise all’apertura dei consultori autogestiti non avevano evitato il prodursi di differenze quantomeno d’accento: fra chi vedeva “la controparte non nella Medicina ma nello Stato” (Padova), chi favoriva la pratica dell’autocoscienza limitando il ruolo di “servizio” per non farsene travolgere (Milano), chi apriva i centri non “per creare strutture permanenti ma come forma di lotta per ottenere che il Comune si facesse carico dei bisogni delle donne” (Torino) e perché “le donne acquistino la forza perché il diritto alla salute diventi una realtà” (Roma).

Molto del pensiero e della pratica nata nei centri autogestiti e giunto ai consultori pubblici grazie alle donne che scelsero di lavorarci, venne eroso nel tempo.
Nel giro di 10 anni scompaiono i comitati di gestione (che pur costruiti secondo un modello di rappresentatività dei partiti erano la sede del confronto politico) e “grazie” a cambiamenti apparentemente insignificanti (come la progressiva sostituzione dei medici dedicati coi medici ospedalieri) i consultori tendono a trasformarsi in ambulatori.
Vengono accreditati consultori orientati ideologicamente (privati e no-profit) mentre vengono chiusi quelli pubblici dove la precarizzazione del lavoro e l’obbligo delle compatibilità aziendali rendono sempre più faticoso garantire un servizio di qualità; che pure resiste ed è in grado di accompagnare i cambiamenti per esempio accogliendo la domanda delle donne straniere.
Finché l’insofferenza contro la campagna di demonizzazione e colpevolizzazione delle donne (sull’onda della legge che regola l’accesso alla procreazione assistita e per gli aborti volontari) dà risonanza alla nostra voce e il 14 gennaio 2006 porta nelle strade decine di migliaia di donne (e uomini) dietro le scritte “Usciamo dal silenzio. La libertà femminile all’origine della vita” e riporta i consultori al centro di nuove battaglie.
Ma questa è storia dell’oggi, tutta da scrivere.

 

Bibliografia 

Le operaie della casa. A cura del collettivo internazionale femminista, Marsilio Editore, 1975.

Lessico politico delle donne: teorie del femminismo. A cura di Manuela Fraire, Fondazione Badaracco - Franco Angeli, 2002.

Dietro la normalità del parto. A cura del gruppo femminista per il salario al lavoro domestico di Ferrara. Marsilio Editore, 1978.

La coscienza nel corpo. Luciana Percovich, Fondazione Badaracco - Franco Angeli, 2005.

Percorsi del femminismo milanese a confronto. A cura di Anna del Bo Boffino, Guerini Studio Editore, 1996.

 

 

Questo scritto è stato pubblicato in “70 gli anni in cui il futuro è cominciaton.6/1975. 
In edicola con Liberazione a partire dal 15 marzo 2007.