Questo intervento di Sara Ongaro è stato tenuto allo

" Sconvegno : quali soggettività femministe
oggi…"
il 4 maggio 2002.
Rappresenta anche una traccia dei contenuti del seminario
dal titolo "Donne e Globalizzazione"

che Sara ha tenuto il 19-20 ottobre 2002 presso
la Libera universita delle donne di Milano,

Resistenza creativa
di Sara Ongaro




Di tutte le domande contenute nell'invito allo sconvegno quelle che mi toccano maggiormente riguardano le strategie di sopravvivenza, la resistenza creativa e trasformativa del nostro quotidiano: vorrei interrogarmi su come questo campo mette in gioco il mio femminismo.


Ho scelto di vivere in Sicilia (sono lombarda di origine), nella sua punta sud orientale, sotto Tunisi per latitudine, di guardare cioè all'Italia e all'Europa dal suo punto estremo verso l'Africa, da una periferia lontana da tutto, fuori dai cosiddetti circuiti "interessanti". È sicuramente la sfida di uno sguardo diverso, sottosopra.
È un luogo di grande bellezza, dove la vita costa molto meno in termini economici, anche perché è sostenuta da relazioni umane fatte di scambi, perché si può ogni giorno fare un giro in una campagna selvatica e ricchissima e tornarne con borse piene di buonissime cose da mangiare.
Non ho un lavoro fisso e dipendente, sono antropologa e formatrice, lavoro su quel che mi interessa a sufficienza per vivere, ma questo mi permette di gestire il mio tempo, di prendermi una vacanza a febbraio e di curarmi un'influenza anche per due settimane come dico io.
Tutte queste scelte le vivo e condivido con il mio compagno, ritrovandoci ad essere una famiglia felice e di diversi milioni sotto la soglia di povertà.
Da qualche anno lavoro insieme ad altre tre amiche antropologhe: ci siamo create uno spazio di discussione e confronto sulle tematiche, i metodi e i modi per stare in questa realtà e nella nostra professione, per lavorare insieme e vivere solidarmente. Stiamo costituendoci in cooperativa; non vogliamo essere un gruppo solo per quanto riguarda l'attività lavorativa, ma anche per la gestione di aspetti che fanno parte della nostra vita, che interessano il nostro tempo quotidiano, che stanno intorno, prima, dopo e dentro il nostro lavoro: per esempio la gestione dei nostri bambini o delle nostre case sono per noi terreno di sperimentazione e responsabilità collettiva. Con noi c'è anche un amico che non è antropologo, ma è interessato al nostro percorso. Facciamo anche parte di una rete di antropologhe (anche qui c'è un solo antropologo) - quasi tutte siamo ex-compagne di università - che non si definisce femminista, benché alcune lo siano e benché molte di noi lavorino con un approccio di genere e su tematiche assolutamente vicine alla ricerca del femminismo storico.

Ecco, nella mia esperienza la definizione di femminista non ha mai contato molto, ma la vicinanza è sempre stata grande: i percorsi di consapevolezza personale e di studio sono stati segnati profondamente dal femminismo, ma c'è anche forte il sentire che siamo altro dalle femministe storiche. Ampliare, articolare, rendere plurale questo concetto è un'esigenza e soprattutto, nella mia esperienza, quando ho iniziato a frequentare la Sicilia, ho imparato quanto fosse importante e arricchente coinvolgere in questo processo gli uomini (cosa che finché ho vissuto al nord mi sembrava assolutamente irrilevante e poco interessante): ora è diventato per me imprescindibile.

Per me pensare a resistere a questo sistema, significa avere davanti il suo nocciolo capitalista/consumista e militarista, sapendo che entrambe queste caratteristiche sono segnate pesantemente e inevitabilmente dal sessismo, nocciolo che fra l'altro in questi ultimissimi anni si sta manifestando in tutta la sua evidenza (la guerra globale, il turbo capitalismo); la visione antropologica che fa da ideologia a tale sistema è quella dell'individuo onnipotente, incapace di riconoscersi dei limiti, immagine di estrema forza ed efficacia, ma allo stesso tempo di drammatica debolezza e inettitudine a stare dentro la vita per quello che è (a meno di continue protesi e correttivi tecnologici).

Qui credo ci sia molto da ragionare. Provo a proporre alcune idee. Io credo che il desiderio infinito (per cui abbiamo il diritto di lavorare 12 ore e di avere due bei bambini e di andare al cinema e in vacanza e…e…) è un desiderio onnipotente e aggiungo, di fatto maschile, perché storicamente sono gli uomini ad essere stati liberi dai vincoli assolutamente stringenti della riproduzione della vita, a potersi fare la loro vita; e direi anche che è un desiderio "colonizzatore", perché incurante delle conseguenze che semina intorno, sotto e dietro di sé, che ha bisogno di pesare su altri per realizzarsi e di sfruttarli. È un desiderio legato all'individuo isolato, absolutus.
È incarnando questo desiderio in espansione, incessante che vivremo meglio? Ha senso pensare solo a come realizzarlo ricorrendo a più merci, ad altre relazioni di mercato? Non si potrebbe invece ripensarsi come individue e provare a smettere di concepire il limite come elemento negativo, guardarne anche la potenzialità di riproduttore di vita e di vita con dignità e abbondanza? Assumersi fino in fondo le conseguenze delle proprie scelte, saper dire sì a certe cose e no ad altre, sapere che alcune cose ne escludono altre, sentirsi chiamate a ripensare le relazioni intorno a noi, affinché questa mentalità non sia solo delle donne (facendone quindi ancora le vittime, caricate di tutte le responsabilità e i pesi) ma delle comunità, degli uomini, in modo che ciascuno porti la sua parte di "peso" e nessuno ne senta più la pesantezza. Dico peso fra virgolette perché credo sia proprio in queste relazioni che troviamo per esempio quelle cose che sono l'amore, l'affetto, la cura.
Il limite per noi è associato alla morte, alla fine e mai alla trasformazione, all'apertura di un'altra dimensione: ma la vita risponde ad una legge di rigenerazione. Il femminismo per me oggi è la via per imparare questa mentalità nuova (o antichissima). I nostri limiti siamo noi stesse, non sono altro da noi, contro di noi, come se solo il desiderio fosse la nostra essenza.
Quali sono allora i limiti positivi del nostro desiderio? Sono i confini che le relazioni intense con gli altri ci pongono, sono i confini del nostro corpo con le sue possibilità e debolezze, con i suoi tempi e le sue energie, che ovviamente non sono immutabili, ma possono essere appunto trasformati a seconda di quante relazioni solidali e rigenerative creiamo intorno a noi. Vorrei raccontare un esempio molto concreto che mi viene da una discussione fatta a Porto Alegre quest'anno a un seminario femminista: una giovane donna peruviana, economista, bianca, ricca, afferma che ovviamente noi possiamo essere lì perché a casa abbiamo altre donne che tengono la casa, i figli e il marito. Quello che per me stona è "l'ovviamente": è un arrendersi a un sistema e a delle relazioni coloniali (nel vero senso della parola perché poi le donne di servizio sono tutte indigene), senza nemmeno immaginare che si potrebbe lavorare per relazioni diverse con il compagno, con le amiche, con se stesse (le donne indigene presenti al Forum per esempio i bambini se li portavano appresso). Questo non vuole essere un giudizio sulle scelte di ciascuna, ma una sollecitazione ad evitare gli "ovviamente" quando in gioco sono le nostre relazioni personali incrostate di dinamiche fra i generi e le classi (o le razze) che a una femminista dovrebbero per lo meno fare problema. Certe cose ci piacerebbero, ma non ci arriviamo, non riusciamo proprio ad inventarci nulla di diverso, pazienza…Riusciamo a dire qualche volta questo "pazienza…", ma non come una sconfitta, bensì come attesa di qualcosa di nuovo e di diverso, al di là anche del nostro desiderio, e non al di qua? non è anche questa un'esperienza normale, della vita? è chiaramente ben altro dalla passività fatalista: è la creatività di risorse insperate che ci possono fare scoprire dimensioni diverse dove non ne aspettavamo.

Già pensare, come si proponeva nel documento, a delle strategie prima di tutto personali e poi man mano collettive, in piccoli gruppi e poi sociali, mi pare sia un metodo "resistente" e che alle modalità di pensiero e azione delle donne deve molto: stiamo cambiando le nostre vite per non essere troppo pesantemente cambiate e soprattutto ci stiamo credendo, stiamo già cambiando, non stiamo aspettando le Nazioni Unite o chissà chi: il cambiamento è già davanti a noi, fra noi in tanti piccoli frammenti che si moltiplicano, non lottiamo per il domani, ma per l'oggi, per la nostra vita.
Pensando perciò alle strategie di resistenza mi viene subito in mente quella della sottrazione (liberare quante più azioni, momenti e luoghi dalla mercificazione), della riappropriazione di tempi e momenti dalla fretta, dalle merci e dalle parole del consumismo. Chiamo questi: esperimenti di autonomia dalle relazioni mortifere ed opache come sono quelle del mercato globale e del suo discorso principe (la pubblicità che permea di sé moltissimi altri discorsi non direttamente finalizzati alla vendita). Creare spazi dove poter sperimentare sul proprio corpo e sulle proprie emozioni cosa cambia il fare le cose in un'altra maniera. Per questo noi non abbiamo la televisione, usiamo pochissimo la macchina e mai l'aereo (significano 23 ore di viaggio per arrivare a Milano), io faccio meditazione quotidianamente (cioè "spreco" nel silenzio vari minuti della mia giornata). Introducendo queste cose non cambia solo il tempo, ma le relazioni, l'organizzazione di tutta la giornata.

Ho parlato di sottrazione, ma c'è il pericolo che la parola sia negativa. Infatti mi sono convinta che la cosa fondamentale nella prassi alternativa accanto al "qui e ora" sia il principio del piacere: non si può fare nulla con sacrificio, mortificazione, altrimenti semplicemente non funziona; bisogna cambiare un comportamento sapendo che bisognerà cambiare dimensione, atteggiamento, spirito. Ho riflettuto molto su questo spinta da alcuni genitori desiderosi di cambiare, ma preoccupati dall'ostilità dei figli. Io non ho ancora figli, ma sono stata figlia di genitori molto alternativi e da molti anni osservo le altre famiglie e mi sembra di vedere che ciò che fa la differenza è quanto piacere mettiamo nella trasformazione: in moltissimi pur lodevoli tentativi di cambiare il proprio stile di vita si avverte un senso del dovere, è vissuto in fondo come un sacrificio, certo per un bene che si considera più grande, ma comunque come qualcosa di negativo, soprattutto con sensi di colpa rispetto all'imposizione di uno stile diverso al proprio figli@ rispetto ai suoi amici e amiche. Non mi è invece mai capitato di trovare una famiglia in crisi per il proprio stile di vita alternativo quando insieme a questo c'era il dedicare tempo, energie, attenzioni, discussioni e giochi ai figli e il sentire il cambiamento davvero come un piacere, una conquista e non una perdita. Io sono stata una figlia educata in modo un po' diverso, ma questo invece che farmi sentirmi inferiore, mi ha dato sempre un certo orgoglio, immagino perché mi veniva trasmesso come qualcosa di molto positivo, con molti più vantaggi e bellezze che non lo stile uniforme degli altri.

"Sottrarsi" significa "fare opera di riapporpriazione": nel mondo dove tutto è merce (la vita, i sogni, i gusti, le scelte), dove ciò che è meglio per noi lo determinano i mass media, le agenzie pubblicitarie, gli apparati industriali, dove il meccanismo capitalista, vero fondamentalismo pervasivo, violento e inconsapevole del mondo di oggi, necessita per funzionare di produrre sempre nuove merci e cioè di indurre sempre nuovi bisogni, dei quali ci ritroviamo schiave perché non abbiamo alcun margine per dire questo sì e questo no, e finiamo per perdere ogni nozione di noi stesse, di cosa davvero ci serve e di cosa no, di cosa ci fa bene e di cosa no. Riappropriarsi significa ritrovarsi, ridare i "nostri" nomi alle cose, sfuggire a certi terreni e inventarne altri, imparare a convivere (ben diverso da accettare passivamente!) con la vita, le sue trasformazioni, le sue fatiche, le sue attese, i suoi limiti: prendendo scorciatoie non c'è pace, non c'è orizzonte e quindi nemmeno consapevolezza, progetto possibile che coniughi il noi piccolo e personale, privato e il noi collettivo. Forse i drammi del turbo capitalismo odierno hanno davvero portato a saldare o a rendere evidentissima la connessione fra privato (i nostri personali e familiari comportamenti, la nostra personale salute) e pubblico (l'effetto serra, le guerre, ecc.).

Nel libretto "Le donne e la globalizzazione" che ho scritto come una sintesi che sentivo necessaria a me prima di tutto per guardare a questo mondo di oggi, uno strumentario insomma di concetti e domande per andare avanti, sono arrivata ad alcuni punti che ritengo fondamentali da tenere in agenda, ne cito qui due: stanno un po' a monte di tutto il discorso scritto fino ad ora; ci interrogano come femministe e appassionate di trasformazione vitale.
1. La relazione con le donne non occidentali, la contaminazione con le loro pratiche, con la loro forza, la loro positività e propositività (torno da un viaggio in Brasile nel quale ho passato abbastanza tempo a contatto con esperienze di educazione e lavoro popolare: ci si rende abbastanza conto di due cose fondamentali: che le donne non hanno alcuna remora a intervenire, parlare in pubblico, esprimere leadership e che gli uomini non hanno particolari difficoltà a partecipare a momenti "di donne" con grande ascolto e impegno; mi capita spesso di fare incontri sulle donne mussulmane dove cerchiamo di sfatare l'idea di una donna sottomessa e passiva non solo parlando della storia arabo-persiana, ma anche facendo emergere mille esempi quotidiani che ormai ciascuna di noi ha accumulato e nei quali le donne mussulmane si dimostrano molto più determinate e convinte del fatto loro di quanto lo siamo noi); dovremmo interrogarci su cosa abbiamo bisogno di chiedere loro (smettiamola con: cosa dobbiamo dare?);
2. L'attenzione al contesto mondiale di riorganizzazione della riproduzione sociale (e anche biologica) con le donne in primo piano essendo sempre state le principali produttrici di quel valore non monetario che sorregge anche il capitale ed essendo oggi massicciamente impiegate sia nella produzione che nella riproduzione pagata. Con il risultato che questo processo di riorganizzazione colloca oggi le donne del mondo in ruoli molto diversi: quelle del Sud, lavoratrici della riproduzione oltre che della produzione industriale, a garantire a quelle del Nord l'accesso pieno a ritmi, spazi pubblici, carriere ecc. prima disponibili più facilmente agli uomini (stiamo in pratica importando un modello tipico dei Paesi di tradizione coloniale), l'emancipazione di alcune a spese della subordinazione e dell'espulsione dalla cittadinanza di altre.

Sara Ongaro è nata a Lodi nel 1971, si è laureata in filosofia con indirizzo antropologico a Siena e ha conseguito un master in Women and Development a York. Vive e sogna in Sicilia dove si è trasferita per amore del Sud e dove lavora intorno alle tematiche della globalizzazione insieme ad altre antropologhe, riunite nella cooperativa Daera, e al suo compagno.
Ha pubblicato Le donne e la globalizzazione, Domande di genere all'economia globale della ri-produzione, edizioni Rubbettino, 2001