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Ho scelto di vivere in Sicilia (sono lombarda di origine), nella sua punta sud orientale, sotto Tunisi per latitudine, di guardare cioè all'Italia e all'Europa dal suo punto estremo verso l'Africa, da una periferia lontana da tutto, fuori dai cosiddetti circuiti "interessanti". È sicuramente la sfida di uno sguardo diverso, sottosopra. È un luogo di grande bellezza, dove la vita costa molto meno in termini economici, anche perché è sostenuta da relazioni umane fatte di scambi, perché si può ogni giorno fare un giro in una campagna selvatica e ricchissima e tornarne con borse piene di buonissime cose da mangiare. Non ho un lavoro fisso e dipendente, sono antropologa e formatrice, lavoro su quel che mi interessa a sufficienza per vivere, ma questo mi permette di gestire il mio tempo, di prendermi una vacanza a febbraio e di curarmi un'influenza anche per due settimane come dico io. Tutte queste scelte le vivo e condivido con il mio compagno, ritrovandoci ad essere una famiglia felice e di diversi milioni sotto la soglia di povertà. Da qualche anno lavoro insieme ad altre tre amiche antropologhe: ci siamo create uno spazio di discussione e confronto sulle tematiche, i metodi e i modi per stare in questa realtà e nella nostra professione, per lavorare insieme e vivere solidarmente. Stiamo costituendoci in cooperativa; non vogliamo essere un gruppo solo per quanto riguarda l'attività lavorativa, ma anche per la gestione di aspetti che fanno parte della nostra vita, che interessano il nostro tempo quotidiano, che stanno intorno, prima, dopo e dentro il nostro lavoro: per esempio la gestione dei nostri bambini o delle nostre case sono per noi terreno di sperimentazione e responsabilità collettiva. Con noi c'è anche un amico che non è antropologo, ma è interessato al nostro percorso. Facciamo anche parte di una rete di antropologhe (anche qui c'è un solo antropologo) - quasi tutte siamo ex-compagne di università - che non si definisce femminista, benché alcune lo siano e benché molte di noi lavorino con un approccio di genere e su tematiche assolutamente vicine alla ricerca del femminismo storico. Ecco, nella mia esperienza la definizione di femminista non ha mai contato molto, ma la vicinanza è sempre stata grande: i percorsi di consapevolezza personale e di studio sono stati segnati profondamente dal femminismo, ma c'è anche forte il sentire che siamo altro dalle femministe storiche. Ampliare, articolare, rendere plurale questo concetto è un'esigenza e soprattutto, nella mia esperienza, quando ho iniziato a frequentare la Sicilia, ho imparato quanto fosse importante e arricchente coinvolgere in questo processo gli uomini (cosa che finché ho vissuto al nord mi sembrava assolutamente irrilevante e poco interessante): ora è diventato per me imprescindibile. Per me pensare a resistere a questo sistema, significa avere davanti il suo nocciolo capitalista/consumista e militarista, sapendo che entrambe queste caratteristiche sono segnate pesantemente e inevitabilmente dal sessismo, nocciolo che fra l'altro in questi ultimissimi anni si sta manifestando in tutta la sua evidenza (la guerra globale, il turbo capitalismo); la visione antropologica che fa da ideologia a tale sistema è quella dell'individuo onnipotente, incapace di riconoscersi dei limiti, immagine di estrema forza ed efficacia, ma allo stesso tempo di drammatica debolezza e inettitudine a stare dentro la vita per quello che è (a meno di continue protesi e correttivi tecnologici). Qui credo
ci sia molto da ragionare. Provo a proporre alcune idee. Io credo che
il desiderio infinito (per cui abbiamo il diritto di lavorare 12 ore
e di avere due bei bambini e di andare al cinema e in vacanza e
e
)
è un desiderio onnipotente e aggiungo, di fatto maschile, perché
storicamente sono gli uomini ad essere stati liberi dai vincoli assolutamente
stringenti della riproduzione della vita, a potersi fare la loro vita;
e direi anche che è un desiderio "colonizzatore", perché
incurante delle conseguenze che semina intorno, sotto e dietro di sé,
che ha bisogno di pesare su altri per realizzarsi e di sfruttarli. È
un desiderio legato all'individuo isolato, absolutus. Già
pensare, come si proponeva nel documento, a delle strategie prima di
tutto personali e poi man mano collettive, in piccoli gruppi e poi sociali,
mi pare sia un metodo "resistente" e che alle modalità
di pensiero e azione delle donne deve molto: stiamo cambiando le nostre
vite per non essere troppo pesantemente cambiate e soprattutto ci stiamo
credendo, stiamo già cambiando, non stiamo aspettando le Nazioni
Unite o chissà chi: il cambiamento è già davanti
a noi, fra noi in tanti piccoli frammenti che si moltiplicano, non lottiamo
per il domani, ma per l'oggi, per la nostra vita. Ho parlato di sottrazione, ma c'è il pericolo che la parola sia negativa. Infatti mi sono convinta che la cosa fondamentale nella prassi alternativa accanto al "qui e ora" sia il principio del piacere: non si può fare nulla con sacrificio, mortificazione, altrimenti semplicemente non funziona; bisogna cambiare un comportamento sapendo che bisognerà cambiare dimensione, atteggiamento, spirito. Ho riflettuto molto su questo spinta da alcuni genitori desiderosi di cambiare, ma preoccupati dall'ostilità dei figli. Io non ho ancora figli, ma sono stata figlia di genitori molto alternativi e da molti anni osservo le altre famiglie e mi sembra di vedere che ciò che fa la differenza è quanto piacere mettiamo nella trasformazione: in moltissimi pur lodevoli tentativi di cambiare il proprio stile di vita si avverte un senso del dovere, è vissuto in fondo come un sacrificio, certo per un bene che si considera più grande, ma comunque come qualcosa di negativo, soprattutto con sensi di colpa rispetto all'imposizione di uno stile diverso al proprio figli@ rispetto ai suoi amici e amiche. Non mi è invece mai capitato di trovare una famiglia in crisi per il proprio stile di vita alternativo quando insieme a questo c'era il dedicare tempo, energie, attenzioni, discussioni e giochi ai figli e il sentire il cambiamento davvero come un piacere, una conquista e non una perdita. Io sono stata una figlia educata in modo un po' diverso, ma questo invece che farmi sentirmi inferiore, mi ha dato sempre un certo orgoglio, immagino perché mi veniva trasmesso come qualcosa di molto positivo, con molti più vantaggi e bellezze che non lo stile uniforme degli altri. "Sottrarsi" significa "fare opera di riapporpriazione": nel mondo dove tutto è merce (la vita, i sogni, i gusti, le scelte), dove ciò che è meglio per noi lo determinano i mass media, le agenzie pubblicitarie, gli apparati industriali, dove il meccanismo capitalista, vero fondamentalismo pervasivo, violento e inconsapevole del mondo di oggi, necessita per funzionare di produrre sempre nuove merci e cioè di indurre sempre nuovi bisogni, dei quali ci ritroviamo schiave perché non abbiamo alcun margine per dire questo sì e questo no, e finiamo per perdere ogni nozione di noi stesse, di cosa davvero ci serve e di cosa no, di cosa ci fa bene e di cosa no. Riappropriarsi significa ritrovarsi, ridare i "nostri" nomi alle cose, sfuggire a certi terreni e inventarne altri, imparare a convivere (ben diverso da accettare passivamente!) con la vita, le sue trasformazioni, le sue fatiche, le sue attese, i suoi limiti: prendendo scorciatoie non c'è pace, non c'è orizzonte e quindi nemmeno consapevolezza, progetto possibile che coniughi il noi piccolo e personale, privato e il noi collettivo. Forse i drammi del turbo capitalismo odierno hanno davvero portato a saldare o a rendere evidentissima la connessione fra privato (i nostri personali e familiari comportamenti, la nostra personale salute) e pubblico (l'effetto serra, le guerre, ecc.). Nel libretto
"Le donne e la globalizzazione"
che ho scritto come una sintesi che sentivo necessaria a me prima di
tutto per guardare a questo mondo di oggi, uno strumentario insomma
di concetti e domande per andare avanti, sono arrivata ad alcuni punti
che ritengo fondamentali da tenere in agenda, ne cito qui due: stanno
un po' a monte di tutto il discorso scritto fino ad ora; ci interrogano
come femministe e appassionate di trasformazione vitale.
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