SIMMETRIE
Liliana Moro
Alle donne afgane è vietato istruirsi o almeno lo era e speriamo
che l'attenzione internazionale impedisca ai nuovi conquistatori di Kabul
di continuare la politica dei Taleban.
Ma questo rischio non è
tanto irreale, visto ciò che è stato prontamente denunciato
dalle esponenti dell'Associazione Rawa (Revolutionary
Association of the Women of Afghanistan) all'indomani dell'entrata delle
truppe dell'Alleanza del Nord nella capitale. Rawa ricorda con dolore
e preoccupazione le violenze contro le donne attuate dai mujaheddin quando
erano al potere e teme fortemente che la politica sociale, nei confronti
delle donne, del nuovo regime sia all'insegna della continuità
con il vecchio.
Questo è un elemento di gravissima inquietudine per le
donne
afgane e anche per quelle dei paesi, che ora vengono semplicisticamente
definiti occidentali. L'uso delle armi e l'intervento delle forze armate
anglo-americane e degli altri paesi alleati, sono stati giustificati anche
con la necessità di por fine all'oppressione delle donne, elemento
che è stato sottolineato con forza. Se nella prospettiva della
pace non si dà la stessa priorità alla condizione femminile,
il sospetto di strumentalità nell'innalzare la bandiera dei diritti
conculcati diventa inquietante. E questo riguarda la considerazione delle
donne, il posto che loro viene assegnato nella costellazione ideologica,
nel sistema di valori dei 'nostri' militari, giornalisti, politici non
meno di quelli afgani.
Ma
le simmetrie tra il qui e l'altrove, tra Oriente e Occidente sono anche
altre.
La negazione del diritto all'istruzione è stata forse quella che
più ci ha colpito, di cui più si è parlato. Abbiamo
scoperto che le ragazze venivano mandate all'estero per studiare; che
in alcune regioni afgane le bambine potevano imparare a leggere e scrivere
solo in modo più o meno clandestino, che insegnanti e mediche erano
state licenziate da scuole e ospedali.
Lo scandalo, la rabbia sono assolutamente condivisibili e sacrosanti,
ma non dimentichiamo che anche da noi sono accadute cose simili. In tempi
non troppo lontani anche in Europa e in America era vietato alle donne
istruirsi e in alcuni periodi vennero allontanate dagli impieghi e dall'insegnamento.
L'attuale
prevalenza di ragazze in ogni ordine di studi non cancella il ricordo
del fatto che nel secolo scorso,
nel Novecento, la percentuale femminile di laureate e diplomate era infima,
e reciprocamente era ampia la quota di donne analfabete.
Vennero pure fatte leggi per impedire alle donne di dirigere scuole, di
insegnare nei licei e questo avveniva in Italia. Un Regio Decreto del
1923 dell'allora ministro della Pubblica Istruzione, Giovanni Gentile,
nel quadro della sua riforma del sistema scolastico, proibiva alle donne
di ricoprire la carica di preside, l'anno successivo venne emesso quello
per le dirigenti a ogni livello, nel 1926 fu loro vietato insegnare lettere,
latino e filosofia nei licei e nelle superiori.
Nella democratica Inghilterra le porte dell'ateneo di Cambridge rimasero
chiuse fino al 1948 alle studentesse. In tutti gli stati europei e americani
nessuna donna poté laurearsi prima del 1867. Le ragazze che volevano
studiare dovevano farlo sui libri dei fratelli o dei padri e in modo semiclandestino,
senza poter ottenere un titolo di studio. Ancora nel 1971/72 in Italia
meno di 3 ragazze su 100 di pari età studiavano all'università.
Il
rapporto delle donne con il sapere è fortemente condizionato da
questo passato che crea estraneità, disagio, non meno che fascino
e desiderio, nei confronti di sistemi di conoscenza che esse non hanno
costruito.
In particolare è difficile il rapporto con le discipline scientifiche,
dove forse le donne continuano a considerarsi delle immigrate, delle ospiti
poco gradite. Il numero di presenze femminili in ruoli di rilievo, nel
mondo scientifico, rimane basso, nonostante le azioni positive come quelle
avviate dall'Unione Europea per sbloccare quel "tetto di cristallo"
sotto il quale si fermano le ricercatrici nei vari paesi, poco presenti
nei luoghi dove si decidono le politiche della ricerca scientifica.
Una recente ricerca coordinata
da Rossella Palomba con il sostegno del Consiglio Nazionale delle Ricerche
e della Commissione per le Pari Opportunità ha prodotto dati significativi:
tra il 1995 e il 1998, le studentesse italiane hanno ottenuto il 52% delle
lauree in discipline scientifiche, superando i ragazzi anche per qualità,
perché hanno avuto i voti migliori. Gli enti statali hanno assunto
però il 63% di uomini, mandando avanti, evidentemente, anche ricercatori
meno competenti solo perché maschi. Dal 1999 le ricercatrici sono
diventate il 60,4%, ma sono rimaste ferme ai gradini più bassi.
Quando si sale nella gerarchia, si scopre che le donne vengono falcidiate:
ne resta solo un 6,8%.
Per
questo motivo è importante presentare modelli di riferimento positivi.
Il Centro Eleusi-Pristem dell'Università Bocconi di Milano porta
avanti da anni uno studio sul rapporto donne e scienza, che ha già
prodotto due momenti di sintesi: la mostra "Scienziate d'Occidente.
Due secoli di storia" di cui è stato pubblicato il catalogo,
e il quaderno "Donne di scienza,
cinquanta biografie dall'antichità al duemila." di
Liliana Moro e Sara Sesti.
Gli obiettivi dell'indagine sono dare visibilità alle scienziate
e capire, attraverso la ricostruzione delle loro biografie, quali siano
i motivi della scarsa presenza femminile nella
ricerca scientifica per quanto riguarda il passato, e per il presente
individuare le questioni ancora aperte da proporre alla discussione sul
rapporto tra le donne e il sapere.
Una tematica che è tornata di bruciante attualità con il
progredire del velo che copre, come un burqa, la visibilità del
pensiero e l'importanza del punto di vista femminile, offuscati dalla
polvere sollevata dai carri armati e dalle bombe.
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