Il corpo, la legge e le pratiche politiche del femminismo
di Lea Melandri


Che senso ha parlare del corpo in termini di ‘proprietà’, ‘avere il corpo’, ‘appropriarsi del corpo’, quando in realtà  siamo corpo, corpo pensante? Che cosa cambia nel momento in cui prendiamo coscienza che il corpo non è neutro, che è sessuato, e che sulla diversità biologica del maschio e della femmina la storia  -in quanto storia di una comunità di soli uomini- ha costruito il più duraturo dei rapporti di potere : divisione dei ruoli sessuali, esclusione delle donne dalla vita pubblica, identificazione della donna con il corpo, la natura?
Ma, soprattutto, che cosa cambia quando l’attenzione sul corpo si sposta dalla sfera pubblica –dove è visto come oggetto di diritti, leggi, eticità, religione- a quella considerata tradizionalmente privata  -il vissuto, l’esperienza corporea particolare di ogni individuo-, quando cioè si addentra, come ha fatto il femminismo più radicale degli anni ’70, nelle “acque insondate della persona”, in una zona considerata ‘non politica’?

Quando il femminismo ha parlato di “corpo politico”, non intendeva riferirsi a leggi, questioni etiche  -anche se poi battaglie di questo tipo ci sono state (divorzio, aborto, diritto di famiglia)-, ma riportare la persona, il corpo, la sessualità, la vita affettiva, i legami famigliari, dentro la storia, la cultura, la politica, dove sono sempre stati, con quella modalità che Giorgio Agamben descrive come “messa al bando”, inclusione mediante un’esclusione, atto del “potere sovrano” che sottostà alla fondazione della pòlis  (G.Agamben, Homo sacer, Einaudi 1995).  Il femminismo rappresentò allora il sintomo della crisi della politica  -come politica separata dalla vita, ‘mutilata’ di una parte essenziale dell’umano, anche quando parlava di rivoluzione, nascita di una società alternativa-, e, al medesimo tempo, l’embrione di un suo ripensamento. Oggi questa crisi è evidente, ma, al posto di una politica della vita, reinvenzione dello spazio pubblico, come ci auguravamo, si è fatta strada l’antipolitica.

Quando si parla di ‘proprietà’ del corpo, ‘diritti’, ‘etica pubblica’, si corre il rischio di appiattire un termine dentro l’altro: quando, per esempio, si parla di “proprietà del corpo” solo attraverso il “giuridicismo delle nostre democrazie” (Rossana Rossanda); o quando si chiamano “questioni eticamente sensibili” realtà prevalentemente politiche, non riconosciute come tali. Uscire dalla confusione non vuol dire isolare un aspetto dall’altro, ma mettersi in condizione di trovare “nessi” che già ci sono e che vanno esplorati.


Partirò dal primo termine: che cosa vuol dire avere, possedere, appropriarsi del proprio corpo? Perché non diciamo invece essere corpo, corpo pensante? Quanto ha influito su questo aspetto oggettivato, proprietario, del corpo la scissione originaria tra corpo e linguaggio, e quella che vi è andata confusa tra maschile e femminile?
“Il corpo nasce, invecchia e muore e noi nasciamo, invecchiamo, moriamo con lui: con, come se fosse altro da noi. Alzi la mano chi non direbbe la stessa frase. Non percepiamo il corpo come un ‘modo’, se non un involucro del nostro essere? Malgrado che sappiamo bene di non esistere senza di esso, lo sentiamo come qualcosa di interno/esterno. Invecchiamo, ci ammaliamo, moriamo nostro malgrado; è lui, il corpo, che ci trascina nei suoi ritmi, programmi e disastri.” (R.Rossanda, “Lapis”, n.8, 1990)

Nel libro, La perdita, Rossanda riprende il tema e scrive:
“Sappiamo di ‘essere’ il nostro corpo, ma pensiamo di ‘averlo’, come se la coscienza avesse un altro ordine di esistenza, stesse nel corpo come in una casa, lumaca nel guscio. Dirci: il corpo è la prima casa che ho e il corpo sono io, non fa esattamente lo stesso. Essere e avere non sono lo stesso.”
Fra tutte le opposizioni incomponibili, tutti i dualismi, la più resistente ai nostri sforzi di pacificazione è sicuramente quella di un Io costretto a riconoscersi straniero nel proprio corpo, parte del ciclo biologico e, al medesimo tempo, di una ‘natura’ speciale, irriducibile alla materia di cui sono fatti gli altri viventi. Se per tutti vale questa ‘scissione’ tra un Io che si è immaginato eterno, onnipotente, e la materia di cui siamo fatti, per le donne, identificate col corpo e considerate a lungo prive di un Io, l’alienazione è ancora più profonda.

E’ sempre Rossanda a raccogliere e sottolineare, nel libro Le altre (Feltrinelli 1978), il cambiamento che la coscienza femminile porta, per esempio, nell’idea di ‘libertà’, o meglio il senso diverso che la libertà ha per la donna, e cioè, prioristicamente, libertà di essere:
“Dunque la libertà per lei è ancora e prima di tutto il ritrovare una identità, essere. E’ un tema niente affatto semplice, né risolto nel giuridicismo delle nostre democrazie: la questione della inalienabilità della persona. Per le donne ha una dimensione tanto grande quanto la negazione di cui sono state oggetto: immensa. Esse sanno che la persona resta violata al di là delle dichiarazioni di diritto: dalla miseria, dal comando, dalla ideologia, da quella proiezione dell’oppressore che stinge anche all’interno di noi. E’ questo senso dell’alienazione dell’Io profondo, che si esprime nel bisogno di chiedersi: ma chi sono?, e si proietta di continuo negli slogan femministi “Io sono mia”…è il messaggio più reciso che il nuovo movimento delle donne ci manda.”

Il femminismo tra diritti e pratiche di liberazione

‘Riappropriazione’ del corpo in tutti i suoi aspetti  -dal biologico alla vita psichica e intellettuale- significò, per il femminismo anni 70, partire dalla storia personale, dal vissuto, dalla narrazione di sé, per esplorare tutto ciò che la subordinazione al dominio maschile, alla sua visione del mondo, aveva comportato, come interiorizzazione di modelli, cancellazione di un sentire proprio. La critica va alle istituzioni della vita pubblica, che, sulla cancellazione del corpo, hanno costruito il loro sapere e potere.

Le donne del “Centro per la salute della donna”, costituitosi a Padova nel 1974, scrivono:
“La nostra controparte nella lotta non è la Medicina, ma lo Stato che, attraverso la Medicina e l’organizzazione sanitaria, vuole continuare ad espropriarci del nostro corpo, trasformato in strumento di lavoro domestico di riproduzione materiale e cioè fisica, affettiva e sessuale del marito, e di riproduzione biologica e affettiva dei figli.”
I consultori autogestiti perseguivano la riappropriazione del corpo, della medicina, e il diritto alla salute. Alcuni si prefiggevano di travasare le esperienze dei gruppi per la medicina delle donne dentro le strutture pubbliche. La ‘pratica dell’inconscio’, il ‘self help’, l’ ‘autovisita’, furono i tentativi più radicali di insediarsi nel proprio essere fisico, psichico, intellettuale, attraverso una pratica di relazione tra donne in cui era escluso e criticato il ricorso ai saperi istituiti. Era un modo per sottrarre al medico, allo psicanalista, all’esperto, la conoscenza e la modificazione di sé.


La questione delle leggi, dei diritti, della politica organizzata, si pone in tutta la sua contraddittorietà nel momento in cui si dovette affrontare il problema dell’aborto. Nell’incontro che si tenne al Circolo De Amicis a Milano, nel febbraio 1975, la resistenza fare dell’aborto una battaglia di diritti, insieme a forze politiche organizzate, fu sollevata da molte.
“E’ venuto alla ribalta questo argomento dell’aborto per delle ragioni che in parte passano sopra le nostre teste, cioè in una politica di tipo tradizionale, fatta anche da gente coraggiosa, non lo metto in dubbio, che però segue la sua logica e ci siamo state come coinvolte. Per forza, perché è una cosa che ci riguarda in prima persona e tutti vogliono in questo momento coinvolgerci, dai preti, i vari partiti, i gruppi di opinione, sinistra extraparlamentare. Ora questo può rappresentare un pericolo, perché ci da senso di importanza e euforia, però rimane che la tematica è impostata fuori di noi, dalle nostre teste, e allora, secondo me, il ritrovarci tra noi, significa che noi affrontiamo questa tematica nei modi politici che sono nostri, che non sono quelli della politica tradizionale e quindi con il racconto di esperienze e anche con prese di posizione che magari non hanno grande coerenza, ma riflettono quello che è il nostro pensiero…Non è nel nostro interesse trattare del problema dell’aborto per se stesso. Il nostro sforzo è invece, mi sembra, di legare questo problema a tutta la nostra condizione, e a una questione in particolare, che è quella della nostra sessualità e del nostro corpo.” (Lea Melandri, Una visceralità indicibile)
La prova di quanto fosse lontana dal discorso sulla legge e sui diritti l’analisi che si fece allora dell’aborto, è dimostrata dal fatto che per tutta la durata del convegno i temi furono: sessualità, frigidità, omosessualità, rapporto con la madre, sessualità vaginale e clitoridea.


La voce “aborto”, nel Lessico politico delle donne. Teorie del femminismo, sintetizza così i due diversi atteggiamenti più diffusi e dibattuti tra le donne nei confronti della richiesta di una normativa sull’aborto:
“Mentre i laici e i cattolici contrapposti portavano avanti la battaglia per l’aborto a livello parlamentare, il Movimento delle donne ha continuato separatamente il suo dibattito. Schematizzando si possono individuare due posizioni di fondo: una che ha visto nella formulazione di una legge che legalizzasse e rendesse assistito e gratuito l’aborto, la conquista di un diritto civile e il riconoscimento sociale dei diritti e della forza delle donne; l’altra posizione non ha ritenuto invece utile per le donne una riforma sociale, come è una normativa dell’aborto, attuata da un sistema che non comprende le donne e in cui le donne non hanno diritto di espressione. Non si è voluto soprattutto affermare il ‘diritto civile’ a subire la violenza dell’aborto. Rimanere incinte senza desiderarlo o essere costrette ad abortire anche se si desidera un figlio, provoca nelle donne conflitti e situazioni tali che nessuna legge può pensare di regolare, sistematizzare o risolvere. Per questo si è chiesta semplicemente l’abolizione del reato di aborto, la depenalizzazione…Il rapporto con la maternità e la riproduzione e quindi in negativo anche quello con l’aborto, si può chiarire solo attraverso la ricerca di una sessualità non segnata dall’uomo, affrontando l’analisi del rapporto uomo-donna, comprendendo i motivi e le dinamiche per cui si resta incinte, pur dovendo poi abortire.”

E’ interessante notare come questa posizione critica rispetto al ricorso a una legge ritorni oggi  - a trent’anni esatti dalla sua approvazione (25 maggio 1978)- nei commenti di una generazione di femministe più giovani: le donne del gruppo A/Matrix di Roma.
Scrive Angela Azzaro sul quotidiano Liberazione (21.5.2008):
“La maggior parte delle donne si batteva non per una legge, ma per la depenalizzazione del reato di aborto. Il ragionamento era chiaro: la legge avrebbe significato che lo Stato metteva bocca sul corpo delle donne. Così è stato, anche perché alcuni degli articoli del testo aprono di fatto all’obiezione di coscienza da una parte, e dall’altra alle varie interpretazioni su quando e come inizia la vita. Il bilancio da fare ci riporta direttamente agli anni 70, quando le donne non chiedevano diritti concessi da parte degli uomini, ma libertà. Oggi la sfera personale ritorna con prepotenza sotto i riflettori…la destra la vuole piegare al volere di Dio, la sinistra la riduce a una questione di diritti”.

Beatrice Busi, sullo stesso giornale, richiama opinioni e scritti dei gruppi femministi degli anni ’70:
“qualsiasi forma di legislazione sull’aborto, anche la più ampia, presuppone un controllo sulla donna”.
L’autodeterminazione non è più tale, se si subordina all’interesse dei partiti e delle logiche parlamentari, se una volta ottenuta la legge si impiegano le energie in una lotta difensiva le cui regole sono date dalle istituzioni ospedaliere, giudiziarie, amministrative. La storia recente da ragione di questi dubbi. Quel testo, con tutte le sue ambiguità, viene oggi attaccato e svuotato di senso.
“La lotta contro l’aborto  -prosegue Busi- è stata una lotta a tutto campo, di certo non liquidabile con l’idea di rivendicare e ottenere un ‘diritto’. Parlare pubblicamente di aborto ha significato anzitutto una radicale messa in discussione della sessualità e dei rapporti tra uomo e donna. Ha significato praticare la consapevolezza e la riappropriazione del proprio corpo attraverso strutture e relazioni diverse, come hanno fatto i centri per la salute delle donne. Ha portato con sé anche la reinvenzione del pubblico, la costruzione di nuove istituzioni dal basso, attraverso l’apertura dei consultori autogestiti, dei centri di medicina delle donne.”


A caratterizzare l’originalità e la radicalità del femminismo degli anni ’70  -ma anche, come si vede dalla ripresa che ne fanno i collettivi femministi e lesbici oggi, la sua lezione più duratura- sono le sue pratiche anomale  -autocoscienza, pratica dell’inconscio, self-help-, che hanno al centro il corpo, indagato, narrato, come luogo essenziale della costruzione di una individualità femminile intera, né solo corpo né solo mente, quindi sotto il profilo del radicamento biologico, psichico e intellettuale. Analizzato, soprattutto, con la consapevolezza che identificate col corpo, il corpo ha finito per invadere, informare la loro identità in toto, un corpo a cui hanno dato forma le paure e i desideri dell’uomo: corpo violato, sfruttato, controllato, ridotto a funzione sessuale e riproduttiva.
Ci sono voluti secoli prima che venisse riconosciuta alle donne un’anima, tanto che, all’inizio del ‘900, un misogino visionario ma lucidissimo nel dar voce alla tradizione greco-cristiana dell’Occidente, Otto Weininger, in Sesso e carattere (1903) (Feltrinelli 1978), poteva scrivere:
“La femmina perfetta ignora sia l’imperativo logico sia quello morale e le parole legge, dovere, obbligo verso se stessi sono quelle che le suonano più strane. E’ dunque con tutto il diritto che concludiamo per la mancanza della personalità sovrasensuale. La donna assoluta non ha Io.”
Non si è parlato allora quasi mai di “differenza” femminile, ma di “inesistenza” con riferimento agli effetti della “violenza invisibile” o simbolica, che ha portato le donne a incorporare la visione del mondo del sesso dominante, a parlare la stessa lingua, a confondere l’amore con la violenza, a mettere in atto adattamenti, assimilazione, dolorose resistenze.
In un passaggio del libro Smarririsi in pensieri lunari, Agnese Seranis (Graus editore, Napoli 2007) sintetizza molto bene quello che è stato il ‘viaggio’ intrapreso allora come scoperta, riappropriazione di un ‘sé’ sottratto alla ‘naturalizzazione’, ma anche al confinamento in un ‘genere’:
“In ogni luogo io mi scoprivo inesistente chè non ero che l’ombra dei loro desideri o dei loro bisogni mentre io volevo essere io volevo conoscere volevo tenere nelle mani ciò che ero magari per offrirlo per scambiarlo è solo questo che desideravo donare alla pari ciò che effettivamente ero io mentre sino ad oggi mi sembrava di non donare nulla se non il mio corpo a cui essi davano pensieri a cui essi prestavano immagini. Io l’avevo capito che essi volevano solo dialogare con se stessi o con un’altra inventata da loro stessi ché non inquietasse che non proponesse una lettura diversa della vita e con cui dovessero confrontare il loro stesso ruolo.”


Nelle ricostruzioni che si fanno del femminismo degli anni ’70, di solito si riproducono polarizzazioni note: chi vi vede solo battaglie per i diritti (emancipazione) e chi solo pratiche di liberazione. Nello slogan “modificazione di sé e modificazione del mondo” era invece indicata la presa di distanza da ogni dualismo e la ricerca di nessi. La partecipazione alle manifestazioni per il divorzio, l’aborto, contro la violenza sessuale, è sempre avvenuta in modo critico, preceduta da anni di lavoro collettivo, per evitare che diventassero “un pezzo di riforma” isolata dalla messa in discussione della sessualità e della cultura dominante maschile.
Il femminismo, proprio perché era sintomo della perdita di confini tra vita privata ed esistenza politica,  casa e città, e, al medesimo tempo, inizio di un suo ripensamento, si è trovato a fare i conti con quella che Giorgio Agamben definisce le “aporie” della democrazia moderna, gli aspetti ambigui, contraddittori delle conquiste democratiche.
“Con l’Habeas corpus (1679) non semplicemente homo ma corpus è il nuovo soggetto della politica e la democrazia moderna nasce propriamente come rivendicazione ed esposizione di questo ‘corpo’: dovrà avere un corpo da mostrare.”
“Aporia della democrazia è voler giocare la libertà e la felicità degli uomini nel luogo stesso  -la nuda vita- che segnava il loro asservimento”.
Ma la frattura non sembra essersi ricomposta. Due modi mortiferi di acquistare cittadinanza sono la biopolitica del totalitarismo (morte e sangue) e la società dei consumi.
“gli spazi, le libertà e i diritti che gli individui guadagnano nel loro conflitto coi poteri centrali, preparano ogni volta, simultaneamente, una tacita ma crescente iscrizione della loro vita nell’ordine statuale.”
Scrive Roberto Esposito nel suo libro Bìos (Einaudi 2004):
“o la biopolitica produce soggettività o produce morte…o rende soggetto il proprio oggetto o lo oggettiva definitivamente. O è politica della vita o sulla vita.”
Il femminismo  -e prima ancora il movimento non autoritario nella scuola- sono stati un inizio di “biopolitica affermativa”, una politica che voleva “andare alle radici dell’umano”, mettere in gioco il corpo, e quindi l’intera vita, interrogare l’esperienza, vedere la soggettività come corpo pensante, sessuato, plurale  -fuori dalla figura astratta del cittadino-, capace di riconoscersi nella sua singolarità e in ciò che lo accomuna agli altri, consapevole che solo avanzando verso strati profondi di noi stessi si può accedere a un orizzonte più generale. Voleva dire uscire da tante rovinosce contrapposizioni, tra particolare e universale, necessità e libertà, individuo e collettività, che, costruite come poli complementari, portano fatalmente agli accorpamenti che sono oggi sotto i nostri occhi e che chiamiamo genericamente “antipolitica”.


Forse è per questa radicalità delle pratiche del movimento delle donne in Italia che il pensiero femminista sul diritto ha avuto da noi una minore diffusione che in altri paesi. Si può dire in generale, come ha scritto Alessandra Facchi in un saggio, contenuto nel libro Filosofica del diritto contemporaneo, che il diritto ha continuato a essere per il femminismo “un oggetto ambiguo e controverso”, visto come strumento di miglioramento, ma anche come l’espressione più pericolosa della cultura maschile. Anche in Italia il dibattito ha finito per insabbiarsi dentro il dilemma uguaglianza/differenza: politiche paritarie e politiche volte a tutelare o valorizzare le differenze di genere, cioè i valori tradizionalmente femminili rivisti e risignificati positivamente. Si tratta sempre di valori, modelli  -biologici, psichici, culturali- che “trasferiti in norme giuridiche hanno mostrato i loro limiti”.
Anche senza condividere le posizioni del libro Non credere di avere dei diritti, pubblicato dalla Libreria delle donne di Milano nel 1987, il femminismo in Italia propende a pensare che gli interesse delle donne siano meglio tutelati da regolazione giuridica leggera. Pur riconoscendo la portata simbolica della legge, che rende pubblico ciò che è privato e modifica perciò le coscienze, resta la comprensibile diffidenza per uno strumento così fortemente segnato dal punto di vista maschile, tanto da far passare in ombra la nascita di quel soggetto imprevisto per la vita pubblica che sono le donne, l’affermazione della loro esistenza politica, della libertà di decidere del proprio corpo e della propria vita.


Infine, un chiarimento sull’ambiguo confine tra etica e politica, proprio per quanto riguarda le problematiche che hanno il corpo come parte in causa, quelle che oggi vengono chiamate quasi da tutti “questioni eticamente sensibili”, e che sono invece, alla luce del pensiero femminista, essenzialmente politiche.
Il modo con cui la sinistra liberale, laica, democratica, ha finora affrontato l’invasività delle gerarchie vaticane è stata la contrapposizione frontale Stato-Chiesa, morale religiosa-etica pubblica: una scelta volontaristica e poco produttiva di cambiamenti. Più utile sarebbe analizzare i legami che ci sono stati storicamente tra due ambiti del potere che si sono sorretti a vicenda, legami che oggi si rinsaldano producendo figure ibride, come gli “atei devoti”. Soprattutto, bisogna chiedersi come cambia l’idea di laicità, come si modificano i confini tra religione e politica  -ma anche tra etica e politica-, nel momento in cui viene alla coscienza il fatto che nessuna di queste due sfere è “neutra”, dal punto di vista del sesso. Detto altrimenti: al di là di tutto ciò che le differenzia e le oppone, c’è quanto meno un elemento comune, l’appartenenza alla storia del dominio maschile. Una guarda più alla sfera privata, alla vita personale, l’altra è proiettata verso la sfera pubblica, ma è proprio questa complementarietà a rivelare la loro parentela, la comune matrice in quel protagonista unico della storia, il sesso maschile, che ha diviso, contrapposto, gerarchizzato aspetti indisgiungibili dell’essere umano: il corpo biologico e il pensiero, la sopravvivenza economica e quella affettiva, la necessità e la libertà.
La consapevolezza nuova, che fa il suo ingresso nella storia col movimento delle donne, negli anni ’70  -il rapporto tra i sessi visto attraverso le problematiche del corpo, della sessualità, dell’esperienza personale- modifica sia il confine tra religione e laicità, sia quello più ambiguo tra etica e politica, mostrando come la morale abbia fatto da schermo, occultandoli, a rapporti di potere che attengono alla politica. L’equivocità in cui sono stati tenuti i due termini diventa più chiara se si pensa al modo con cui si è fatta strada, nel dibattito interno alla sinistra, l’urgenza di costruire un’ “etica pubblica”. Nessuno dubita che nella storia della sinistra manchino valori, principi morali, eppure da molte parti si è detto e scritto che su questo versante occorreva colmare un vuoto, ed è stato quando si è cominciato a parlare di “questioni eticamente sensibili”: aborto, fecondazione assistita, eutanasia, ricerca sulle cellule staminali. Ci si è accorti che, su queste vicende, mancava una visione propria da contrapporre a quella dell’integralismo cattolico. La definizione di un’ “etica laica” si è venuta così configurando, per analogia, come l’equivalente dell’etica religiosa; qualcuno ha pensato che potessero persino dialogare, tracciare nuovi equilibri. Ciò significa che, al di là dei contenuti diversi, c’è concordanza nel ricondurre esperienze essenziali dell’umano, che hanno il corpo come parte in causa, al campo della morale, come se fossero problemi di coscienza, da lasciare alla responsabilità del singolo. Viene così occultato sia il fatto che le “questioni di vita” parlano, più o meno direttamente, del rapporto di potere tra i sessi, sia il profondo rivolgimento che le ha portate oggi a collocarsi “nel cuore della politica”, sintomo della sua crisi e, insieme, possibilità di una sua ridefinizione; possono decretarne la fine, la consegna ad altri poteri  -mercato, religione, scienza, media-, a quella che viene chiamata “antipolitica”, o avviare un processo di rinnovamento, come quello che hanno lasciato intravedere i movimenti non autoritari degli anni ’70. Più che di un moltiplicarsi di diritti e di leggi, quello di cui c’è bisogno oggi è una cultura politica che abbia al centro la vita nella sua interezza. In questa prospettiva, l’eredità del femminismo ha molto da dire.

 

 

8-11-2008

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