Povera Ipazia

di Attilia Cozzaglio e Stefano Brambilla


Attilia Cozzaglio

 


"Di circa 450 Nobel scientifici, solamente 11 sono stati attribuiti a donne. In fisica, le due sole premiate sono state Marie Curie e Maria Goeppert-Mayer. E l'americana Barbara McClintock ha dovuto attendere 24 anni perché i suoi studi fossero insigniti dei riconoscimento più prestigioso". Così esordiva nel 1997 Ingrid Cariander su Le Monde Diplomatique, entrando da subito nel vivo di un dibattito che - a fasi alterne - si è sviluppato da tempo anche nel nostro Paese. Pochi e crudi dati, che danno un'immediata dimensione della problematicità del rapporto tra donne e scienze. Pur essendo presente in molti settori della vita sociale - si pensi per esempio alla vita politica - il gap di genere sembra infatti acquistare una valenza particolare in una realtà dominata dallo sviluppo scientifico e tecnologico.

La questione è annosa. Anzi, secolare. Di donne scienziate, fino alla metà dei secolo scorso, ce ne sono sempre state pochissime; e tra queste, molte (tutte?) sono state ghettizzate, considerate "inferiori". Ne sa qualcosa Ipazia, la prima di cui siamo a conoscenza: matematica e astronoma, vissuta ad Alessandria nel IV sec. d.C., inventò l'astrolabio, il pianisfero e l'idroscopio, e riuscì persino a divenire capo della Scuola Neo- platonica di Alessandria. Per poco: a causa della sua "paganità" fu aggredita per strada e brutalmente assassinata da una banda di monaci cristiani. E che dire di Ellen Swallow, una delle fondatrici dell'ecologia, la prima donna a essere ammessa al Mit (Massachusetts Institute of Technology) nel 1871? Laureatasi due anni dopo, fece appena in tempo ad aprire un laboratorio scientifico per sole donne (il primo di questo tipo al mondo) che tempestivamente l'Istituto votò per non ammettere il sesso femminile nelle proprie strutture. Ellen si rifece comunque subito e diventò la prima donna a esercitare la professione di chimica industriale.

Ancora più emblematica l'incredibile storia di Rosalind Franklin. Era il 25 aprile 1953: sulla prestigiosa rivista Nature usciva l'articolo che annunciava la scoperta della struttura del Dna. Il celebre disegno della doppia elica che appare in quelle pagine era opera della signora Crick, illustratrice. Più consueto, anzi classico, il contributo della signora Watson, moglie di James, l'altro autore della storica ricerca: batté a macchina il manoscritto dei due scienziati. Si chiudeva lì, modesto e casalingo, il contributo "femminile" a quello storico momento di cui proprio quest'anno si celebra il cinquantenario? Ebbene no: Rosalind Franklin, ricercatrice inglese, nata nel 1920 e laureata a Cambridge in biochimica, è oggi considerata come una tessera ingiustamente mancante nella vicenda che assegnò a Watson e Crick un posto così importante nella storia della scienza. Dopo quattro anni a Parigi, passati a svolgere ricerca in ottimi laboratori, nel 1951 la Franklin ritornava a Londra, al Kings College. Per lei, carattere forte, a volte brusco, il Kings non era certo un ambiente dei più facili: nella sala ristoro per i ricercatori senior le donne non erano neppure ammesse. E non erano buoni neanche i rapporti con il suo direttore di ricerca, Maurice Wilkins, responsabile dell'unità di biofisica: fra i due vi fu da subito una netta mancanza di feeling. Forse perché Rosalind era abilissima nel suo lavoro, la produzione di immagini per diffrazione di raggi X: con questa tecnica indagava i campioni di Dna che il laboratorio di Wilkins riusciva a selezionare. A fine gennaio dei 195 3, Watson, che lavorava a Cambridge, si recò in visita ad una unità di biofisica del Kings. Incontrò Wilkins e questi gli mostrò un'immagine realizzata da Rosalind: era una fotografia tecnicamente perfetta di fìbre di Dna, un'immagine che, agli occhi di un esperto, suggerisce con forza che la struttura soggiacente è quella di una doppia elica. Nessuno, né Wilkins né Watson, avvisò mai l'autrice di aver preso visione di quella foto. Rosalind aveva qualche idea sulla struttura a doppia elica? Secondo Brenda Maldox, autrice di un saggio uscito a novembre 2002 e dedicato all'intera vicenda, la risposta è affermativa: la scienziata aveva già espresso, due anni prima, questa sua sensazione. Confortato dall'immagine osservata a Londra, Watson tornò poi a Cambridge dove, insieme a Crick, compì gli ultimi passi per verificare che il modello di Dna in loro possesso fosse riconducibile a una doppia elica. Nove anni più tardi, nel 1962, i due ricevevano il premio Nobel. Non erano soli: un terzo andò anche a Wilkins. Rosalind Franklin non c'era più, morta di cancro nel 1958, molto probabilmente a causa delle radiazioni cui si era esposta nel suo lavoro.

Cosa è cambiato dai tempi della Franklin? Tra gli innumerevoli documenti ufficiosi e ufficiali, a fare il punto della situazione arriva in primis l'Unione Europea, che sulla condizione delle donne scienziate ha lanciato già da tempo numerosi segnali d'allarme. In particolare, è il Rapporto Etan 1999, nato da due convegni tenutisi a Bruxelles nel 1993 e nel 1998 tra parlamentari, ministri e ricercatrici europee, a mettere in luce il più eclatante fenomeno di donna e scienza: il cosiddetto "pipeline shrinkage", un gergale inglese che rimanda a una "perdita di materia prima" durante il percorso. In poche parole: le donne che si iscrivono ai corsi di laurea, e si laureano, sono numericamente superiori agli uomini, ma di queste solo una percentuale molto bassa arriva ai livelli più alti della ricerca. Pare che il fenomeno avvenga in tutti i Paesi presi in esame - vale a dire, in tutti i Paesi di cui sono disponibili i dati. Anche in Italia, sull'onda del Rapporto Etan, è stata fatta un'indagine sulle istituzioni pubbliche di ricerca (autrici Rossella Palomba e altre), poi pubblicata nel libro Figlie di Minerva. Risultato: tra il 1995 e il 1998 le studentesse italiane hanno ottenuto il 52 per cento delle lauree in discipline scientifiche, superando i ragazzi anche per qualità (ottenendo, cioè, voti migliori). Gli enti statali hanno assunto però il 63 per cento di uomini, mandando avanti, evidentemente, anche ricercatori non troppo competenti, solo perché maschi. Dal 1999 le ricercatrici italiane sono diventate il 60,4 per cento, ma sono rimaste ferme ai gradini più bassi. Quando si sale nella gerarchia, si scopre che le donne vengono falcidiate: ne resta solo un 6,8 per cento. Nel 1997 (22 maggio) compariva su Nature uno studio di due ricercatrici svedesi, Wenneras e Wold: il loro lavoro dimostrava che per ottenere promozioni pari a quelle di un ricercatore, una ricercatrice (almeno a Stoccolma) deve essere 2,6 volte più brava. A questo lavoro - una vera e propria pietra miliare - se ne affiancavano altri, che dimostravano che anche i compensi, a parità di prestazioni, sono motto più bassi per le donne.

Ci si potrebbe aspettare che negli Stati Uniti, il Paese che maggiormente investe nella ricerca scientifica di base e applicata, le cose vadano meglio. Ebbene no, e lo dimostra il recentissimo e ampio rapporto realizzato dal National Council for Research on Women (Ncrw). Per esempio: benché nel campo della ricerca bio-tecnologica, in piena espansione, la presenza delle donne sia decisamente considerevole (e non è sorprendente, perché in tutto il mondo l'area della biologia è più Frequentata da femmine che da maschi), appena si entra nelle aree decisionali la presenza delle donne scende a precipizio. In tutti i settori tecnici e scientifici, poi, c'è un gap negli stipendi: agli inizi della carriera le donne guadagnano in media intorno ai 35 mila dollari all'anno e gli uomini 38 mila. Intorno ai 40 anni di età, e a parità di ruoli, le donne portano a casa 48 mila dollari mentre agli uomini ne vanno 57 mila. Con l'età, insomma, si allarga la forbice. E ancora: negli Stati Uniti la forza lavoro si segnala per una suddivisione fifty - fifty fra maschi e femmine. Non è così nel sottoinsieme delle attività tecnico-scientìfiche: le donne sono il 12 per cento. E nel comparto dell'insegnamento delle materie scientifiche le professoresse sono meno dei 10 per cento.

Sempre dagli Stati Uniti arriva una serie di analisi che riguarda gli effetti futuri dell'odierno gap di genere, in una direzione che non è quella della ricerca ma che con la scienza ha, e soprattutto avrà, a che fare. Un processo in forte espansione, infatti, è quello delle aziende ad alto know how create da gruppi di ricercatori. Il fenomeno è in forte espansione negli States ma è prevedibile si diffonda in tutto l'Occidente. Tutti i settori tecnologici e biomedici ne sono interessati.

Al di là dei giudizi sul fenomeno (da molte parti lo si osserva criticamente perché vi è il timore di una pervasiva diffusione di criteri business- oriented), i dati che provengono da un'inchiesta della associazione Women Entrepreneurs in Science and Technology (West) ci dicono che le scienziate fanno molta fatica, oltre a essere ben poche a farlo, nel far decollare delle imprese. "Una delle ragioni principali", dichiara Jiahonh Juda, una delle fondatrici della West, "è che le scienziate hanno ben poche colleghe che sono già entrate in affari a cui rivolgersi per avere consigli". E con quelli che arrivano dai colleghi maschi non ci si ritrovano.

Il pipeline shrinkage e la discriminazione maschile nei confronti delle donne sono naturalmente solo un aspetto dei gap di genere, un aspetto quantitativo, numerico. Interessante diventa capire il perché di questa situazione. "Le donne non arrivano non perché non sono più brave: sono più precoci, e quelle che studiano, si impegnano. Se lo fanno come scelta, lo fanno. Le donne che investono di più sullo studio affrontano anche un percorso più lungo". Così, dall'alto della sua esperienza, Maria Bianca Cita Sironi, geologa classe 1924, allieva di Ardito Desio. D'accordo, non è questo che allontana le donne dalla ricerca. E allora? Forse bisogna cercare altrove?

"Noi vogliamo gli asili nido, vogliamo la scuola a tempo pieno per i nostri bambini! lo ho avuto comunicazione che mia figlia non è stata accettata al tempo pieno, troppi pochi posti alle elementari. E come faccio? La babysitter costa! Per chi come me è un'impiegata statale si tratta di una cifra che è più di metà dello stipendio ... ". A parlare è Maria Luisa Lavitrano, quarant'anni, professore di Patologia e Immunologia all'Università di Milano Bicocca, una delle più grandi esperte di xenotrapianti al mondo. Sorpresa: uno dei motivi principali per cui si assiste alla "for- bice" è forse tutt'altro che specifico delle scienziate: obblighi familiari e scarsità di servizi. "E' il fatto di non avere un supporto sociale", continua la Lavitrano. "Parlano di mobilità, ma come ci mobilizziamo noi, se non abbiamo la nonna che ci tiene i bambini? Il mio lavoro è fatto di dover andare a congressi in tutto il mondo, ed è un lavoro senza orario; se io devo fare un esperimento che deve essere seguito da vicino per un determinato numero di ore, non ci sono alternative: o lo fai così o non lo fai ".

Difficoltà di scienziate mamme, quindi, più che di scienziate e basta. E la Lavitrano sembra aver colto nel segno, se guardiamo a cosa succede in Inghilterra: dato che dopo i due anni che nuotano intorno a una maternità le scienziate si ritrovano sganciate dai progressi compiuti nel proprio ramo di ricerca - e sappiamo tutti quanto la ricerca proceda spedita - il ministero della Ricerca inglese prenderà presto in considerazione la proposta di programmare "Corsi intensivi di aggiornamento rivolti al reinserimento delle ricercatrici". La proposta è arrivata dalla signora Susan Greenfield, direttrice della Royal Institution, che ha espressamente ricevu-to dal governo Blair l'incarico di redigere un rapporto sulle difficoltà che incontrano le scienziate e di individuare soluzioni al problema.

Maternità, quindi. Ma c'è dell'altro, a complicare il quadro. Sempre per citare la Carlander, per esempio, le giovani donne che si dedicano alle scienze non trovano "madri simboliche" cui riferirsi, dei modelli forti che possano modificare quel loro immaginario che le porta a vivere l'ingresso nel mondo scientifico come un viaggio in un territorio ostile. Troppo lontani i tempi di Marie Curie, la donna dai mille record (la prima a laurearsi alla Sorbonne di Parigi in fisica e poi in matematica, la prima a vincere un Nobel per la fisica, la prima a diventare professore alla Sorbonne e la prima a vincere un secondo Nobel, questa volta per la chimica, nonché la prima a essere ospitata nel Panthéon di Parigi). Nessuna donna lo vince più, il Nobel, poche sono insignite di qualche riconoscimento, molte lavorana all'ombra dei loro colleghi maschi. Ecco allora che l'Unesco ha pensato, da qualche anno e in partnership con l'Oréal, di premiare "ricercatrici emerite che hanno contribuito ai progressi della scienza e giovani donne scienziate impegnate in progetti esemplari e promettenti". Premi sostanziosi, quelli di For Women in Science: alle cinque emerite di ogni anno - una per ogni continente - 100 mila dollari a testa; alle 15 giovani 20 mila dollari ciascuna.

Gli obiettivi sono chiari, come spiega Renée Clair, responsabile Unesco dei progetti "Donne, scienza e tecnologia": "Oggi, per cambiare gli stati d'animo e riconoscere alle donne il diritto al ruolo di scienziate, gli esempi femminili fanno scuola. Il premio L'Oréal-Unesco vuole riconoscere proprio quest'esemplarità. Sì, ci sono donne che riescono nella scienza, donne che sono felici di lavorare in questo campo. Premiarle è un modo per lottare contro i preconcetti". Belle parole, non c'è dubbio: si dà luce a chi è dentro per illuminare chi è ancora fuori. Ma non saranno solo chiacchiere? Per dissipare i dubbi basta un'e-mail ad Anila Paparisto, 33enne albanese, una a caso delle 15 giovani che hanno vinto il premio L'Oréal-Unesco lo scorso anno.

Le si chiede cosa ne pensa, di questo premio e di quello che ci sta dietro, e si riceve in risposta una storia interessante e commovente, quella di una ragazza-scienziata che, tra le mille difficoltà di uno Stato molto povero, lotta per combattere la leishmaniosi, malattia quasi sconfitta nei Paesi del Mediterraneo e invece ancora frequente in Albania, dove colpisce soprattutto i bambini sotto i cinque anni di età. "Senza il premio", scrive,"sarebbe stato letteralmente impossibile fare alcunché. Ora invece ho i mezzi per sviluppare il progetto, comprare l'equipaggiamento necessario, stabilire un network di ricercatori che lavorano sul campo. E a breve presenteremo al ministero della Salute i nostri risultati, che speriamo aprano la strada a un intervento di prevenzione contro la leishmaniosi in tutto il Paese".

Anila ha scelto di diventare una ricercatrice; i premi incitano a seguire strade come la sua, vogliono spronare nuove leve a farsi avanti, a combattere quella tradizione culturale basata, tra l'altro, sul pregiudizio che vuole che le donne siano meno portate degli uomini per le scienze e in particolare per la tecnica. E' un altro problema, in cui le famiglie e la scuola hanno un ruolo decisivo, se è vero, come dimostrato da numerosi studi nazionali e internazionali, che spesso l'ingresso delle ragazze nei corsi di laurea scientifici non è adeguatamente sostenuto - per non dire che è scoraggiato. C'è chi aggredisce questo stereotipo alla base: Vanna Galassi, per esempio, insegnante nonché componente della Commisssione pari opportunità di Firenze. "Siamo partite dalla constatazione che le ragazzine appassionate di matematica e materie scientifiche una volta uscite dalle scuole medie,vengono mandate al liceo scientifico e non in un istituto tecnico: nell'Itis dove insegno, per esempio, ci sono 30 ragazze su 700 studenti".

E' vero: le ragazze finiscono spesso a fare ragioneria, lingue, magistrali, scuole per parrucchieri e assistenti all'infanzia, professioni tra l'altro meno qualificate di un perito tecnico. Cosa fare, allora? La Galassi racconta di Wotec, che sta per Women in Technology, esperimento conclusosi nel 2001 e finanziato dal Programma Leonardo dell'Unione Europea. "Il tentativo dei progetto era proprio quello di prendere il problema alla base: abbiamo riunito bambine delle scuole elementari e medie, accompagnate dalle madri, e le abbiamo fatte partecipare a laboratori tecnici tenuti da ragazze diplomate nei nostri istituti. Risultato: bambine e mamme si sono divertite, l'ambiente gioviale ha fatto diventare il "compito tecnico" meno estraneo alle ragazze". Come mai il progetto non ha avuto seguito? "Il problema è stato proprio nelle scuole. Questo tipo di programmi ha bisogno di una gestione molto duttile, mentre le scuole sono troppo burocratizzate; si figuri che la nostra scuola capofila ha avuto in tre anni tre segretarie diverse, e questo ha creato problemi amministrativi enormi, per non parlare poi dei presidi che cambiano, degli insegnanti che vanno e vengono. Inefficienze che pesano in particolare sui progetti già ritenuti di secondaria importanza".

Parlando di una supposta avversione femminile verso le tecnologie, risultano significative alcune indagini effettuate nell'area della computer science. Sembra che le femmine, per esempio, abbiano un approccio diverso al personal computer, percepito come uno strumento "per", mentre per i maschi è anche un oggetto "in sé", il che significa un coinvolgimento più forte nel rapporto con la macchina, quel fàmoso "smanettamento" che poi si esprime, agli estremi, nella cultura dell'hacker. Differenze di genere e quindi inevitabili, sostengono alcuni. In realtà i programmi di insegnamento che hanno tenuto conto di tali differenti percezioni per introdurre dei correttivi hanno dato risultati interessanti, per esempio costituendo corsi nei quali le femmine imparano la gestione dei computer senza doversi confrontare con la competitività degli "smanettatori".

E' sempre il rapporto del Ncrw che lo segnala, a partire da un dato significativo: nel 1999 le donne diplomate nell'area della computer science sono state il 20 per cento dei totale, mentre nel 1994 la percentuale era del 37 per cento. Anche se l'uso dei computer è andato enormemente diffondendosi nei cinque anni che separano i due rilevamenti, le femmine che si diplomano in computer science sono diminuite. Se invece viene posta attenzione alla necessità di una didattica che tenga conto delle ragioni culturali dei gap, ecco che ci ritroviamo con le cifre della Carnegie Mellon University, che dal 1995 al 2000 ha aumentato la presenza delle femminile nei suoi corsi di computer science dal 7 per cento al 40 per cento.

C'è ancora un altro aspetto del rapporto tra donna e scienza che non può essere tralasciato. Bastano pochi minuti di navigazione nella Rete per ritrovarsi persi tra associazioni di matematiche americane, mailing list di ricercatrici filippine, gruppi internazionali di women in science. Un frastornante numero di ricercatrici vuole condividere le proprie esperienze. Lo scambio di idee pare fondamentale, a cominciare dall'ambito locale: ne sono un esempio i vari gruppi di studio nati "per la promozione delle tematiche di genere nella ricerca scientifica e tecnologica". Uno l'hanno fondato qualche anno fa cinque ricercatrici del Centro per la ricerca scientifica e tecnologica dell'Istituto trentino di cultura, "con gli obiettivi di sensibilizzare e far riflettere sulle tematiche legate a genere e scienza". Idee e iniziative di "Genere e Scienza" (cosi si chiama il gruppo) non mancano: le scienziate partecipano a conferenze, lavorano con le Commissioni pari opportunità del Comune e della Provincia per supportare l'attività di genere a livello istituzionale, organizzano seminari scientifici nel loro istituto, invitando a parlare scienziate leader per offrire a studentesse e ricercatrici dei role models cui ispirarsi. E soprattutto fanno mentoring, termine che sta ad indicare l'azione di guida da parte di chi è esperto della situazione nei confronti di chi deve ancora affrontarla. Il bilancio delle loro iniziative - sostengono - è finora stato positivo: una maggiore sensibilizzazione soprattutto tra le ricercatrici (un po' meno tra i ricercatori), una certa visibilità al problema a livello locale ma anche nazionale, preziosi contatti con ricercatrici di rilievo a livello nazionale e internazionale. Il tutto - parola chiave - facendo rete. "Fare rete", spiegano, "è indispensabile, nella speranza che la presenza femminile nel campo della ricerca scientifica aumenti non solo in termini quantitativi (più studentesse scelgano questo lavoro), ma anche a livello gerarchico (più donne occupino posizioni decisionali)".

Lo sanno bene anche le ricercatrici del Centro Unesco di Torino, a capo di quella che è forse la più importante rete mondiale di donne scienziate chiamata, guarda caso, Ipazia). "Tutto è iniziato nel 1999, a Budapest", spiega con soddisfazione Maria Paola Azzario Chìesa, presidente del Centro - "la delegazione italiana è riuscita a far inserire nel piano d'azione della Conferenza mondiale dell'Unesco un articolo, assolutamente non previsto, il cui testo richiede una serie di attività specifiche per le donne scienziate".

Due di tali attività, a Torino, le hanno già realizzate, e una è proprio Ipazia, inaugurata nel 2002: una rete informatica che collega tutte le diverse reti che sì interessano di donne e scienza esistenti al mondo. Via chat e forum si riflette su quale sia il ruolo specifico della donna nella scienza, su quale importanza abbia l'apporto femminile in questo comparto culturale. Non tutto è teorico, e non tutto avviene via PC, tuttavia. "Per vivacizzare la rete abbiamo cominciato a fare dal settembre 1999 delle tavole rotonde regionali " continua Azzario Chiesa. "Siamo state in Australia, in Cina e da qualche mese nel Burkina Faso: per ciascuna realtà cerchiamo di individuare qualcosa di specialistico, in modo da coinvolgere le donne scienziate in qualcosa di particolarmente interessante per la loro area e scambiare le nostre esperienze, anche a livello organizzativo. In Cina il tema base era l'educazione all'ambiente, in Burkina la lotta alla povertà". Quando si parla della condizione delle donne ricercatrici, viene spesso usata la metafora dei soffitto di cristallo: un problema che è noto, si vede fin troppo bene, ma fa fatica ad essere recepito e affrontato. I corsi, i premi, i gruppi di studio, i vari progetti dovrebbero aiutare a farlo scomparire, a poco a poco. Ma sono effìcaci? La domanda da cento milioni di dollari a Rossella Palomba, ricercatrice dei Cnr e autrice di quel primo rapporto sulle carriere femminili negli Enti pubblici di ricerca italiani. "Tutte queste iniziative sono meritevoli, ma prima di tutto è necessario un sostegno politico forte, che aiuti a far capire a tutti la posizione delle donne e a valorizzare il loro lavoro". Come dire, il soffitto di cristallo è stato incrinato in tanti punti, ma manca ancora un sasso che lo sfondi definitivamente.

 

 

Questo articolo è tratto dalla rivista "diario", n. 3, 8 agosto 2003